Workers Buyout, ovvero le imprese recuperate dai lavoratori …. Che crescono nel nostro Paese, ma la sfida è resistere alla crisi energetica che rischia di mettere in forte difficoltà quelle esistenti e di scoraggiare la nascita di nuove.

Workers Buyout, ovvero le imprese recuperate dai lavoratori crescono nel nostro Paese, ma la sfida è resistere alla crisi energetica che rischia di mettere in forte difficoltà quelle esistenti e di scoraggiare la nascita di nuove.

Paolo Riva, nella nostra ultima inchiesta
per Buone Notizie, si è confrontato con sindacalisti, investitori ed esperti
su presente e futuro di queste realtà
di Paolo Riva


Quando c’è crisi, ci sono i Workers Buyout (Wbo). È successo con la grande
recessione. E anche con la pandemia. Un’azienda di servizi per l’agricoltura in
provincia di Mantova nel 2020, una fonderia sull’Appennino emiliano nel 2021
e un’impresa elettronica in Calabria lo scorso maggio. Tutte stavano
chiudendo. Tutte sono state salvate dai lavoratori, grazie a un Wbo.
Cosa sono i Workers Buyout
«Un Wbo – spiega Euricse in una ricerca – è un’acquisizione o un salvataggio
di un’impresa convenzionale da parte dei dipendenti», che spesso si
costituiscono in una cooperativa e investono risorse proprie (generalmente
indennità di disoccupazione e Tfr). I Wbo, prosegue la ricerca, «sorgono
soprattutto nei periodi di crisi economica, svolgendo una funzione anticiclica».
Mauro Frangi, presidente di CFI, la partecipata dal Ministero dello sviluppo
economico che sostieni i Wbo, conferma: «pur rimanendo ancora un
fenomeno di nicchia e sottoutilizzato rispetto alle sue potenzialità, la pandemia
ha visto un incremento dei Wbo».
I Workers Buyout, che nel 2019 erano stati 6 per 62 addetti totali, nel 2021
hanno riguardato 11 aziende, per un totale di 272 lavoratori. Numeri in salita,
ma comunque limitati. La sfida quindi è crescere. Anche perché queste
imprese recuperate, ha scritto Aldo Viapiana su lavoce.info, garantiscono
«coesione sociale, reddito, occupazione, recupero e integrazione delle catene
di fornitura».
Per farli crescere, Cfi cerca di far conoscere il più possibile i Wbo. Nel mondo
della cooperazione non ce n’è praticamente bisogno, dal momento che le tre
principali centrali cooperative sono state tra i fondatori di Cfi e sostengono con
forza questa pratica da sempre. «Stiamo lavorando con le associazioni dei
professionisti delle crisi di impresa: manager, consulenti del lavoro,
commercialisti…», riprende Frangi. E poi ci sono i sindacati, che per il
presidente di Cfi sono «fondamentali».
Il ruolo dei sindacati
«I Wbo sono uno strumento positivo, ma non tutti i lavoratori li conoscono,
compresa una parte dei delegati sindacali che operano in prima linea», dice
Maurizio Lunghi, segretario generale della Camera del lavoro di Bologna.
Nel capoluogo emiliano, a marzo, è nato un Osservatorio congiunto tra
cooperative e sindacati sui Workers Buyout, per individuare il prima possibile
le aziende in crisi che potrebbero beneficiarne. Non è l’unico segnale
incoraggiante che viene dai territori, dopo che nel gennaio 2021 Agci,
Confcooperative, Legacoop e Cgil, Cisl, Uil hanno siglato un accordo
nazionale per promuovere i Wbo.
«Le aziende recuperate necessitano di stare sul mercato come tutte le
imprese, ma hanno un valore sociale che va riconosciuto: per questo
l’alleanza tra cooperative e sindacati è importante», commenta Francesco
Lauria, ricercatore del centro studi Cisl che ha seguito alcuni progetti
internazionali sui Wbo. «Il sindacato – prosegue – può avere due ruoli diversi
e complementari: uno interno di supporto ai lavoratori della cooperativa e uno
esterno di cerniera col territorio».
Il futuro dei Wbo e l’incognita della crisi energetica
Il rapporto con le comunità è un punto importante dei Workers Buyout, tanto è
vero che in alcuni casi si è arrivati a dei veri e propri community buyout, grazie
al sostegno dato alle imprese recuperate da istituzioni, organizzazioni
filantropiche e cittadini. «Gli esempi positivi di coinvolgimento delle comunità
esistono, penso alla cartiera Pirinoli in provincia di Cuneo o al centro
commerciale Olimpo a Palermo», elenca Frangi.
«I Wbo – aggiunge Lauria – sono uno strumento di politica attiva ed
economica che va nell’interesse dei lavoratori, ma anche delle istituzioni e
delle comunità. Coinvolgere queste ultime è un tassello importante per dei
Wbo di successo». Non è l’unico. Per far sì che un’azienda rinasca da una
crisi e resista nel tempo i fattori da tenere in considerazione sono molti. Le
competenze dei lavoratori e la loro motivazione, lo stato di salute dell’impresa,
i suoi prodotti, il mercato in cui opera, solo per citarne alcuni. E poi ci sono i
costi, che oggi non si possono non considerare, soprattutto quelli energetici.
Ad inizio settembre, la cartiera Pirinoli ha fermato la produzione a causa del
costo del gas e ha avviato la cassa integrazione, per la prima volta da quando
è rinata. Non è un caso isolato. La maggior parte dei Wbo è nel settore
industriale, spesso in ambiti energivori. La situazione attuale potrebbe, da un
lato, mettere in difficoltà quelle imprese che un Wbo l’hanno già effettuato e,
dall’altro, far crescere il numero di aziende in crisi, interessate a farlo.
«Aumenteranno le possibilità di provarci, ma i Wbo diventeranno
maledettamente più difficili da far funzionare», prevede Frangi di Cfi.
«Questa crisi è diversa dalle precedenti», ragiona Lunghi della Cgil. Un conto
è fare un Wbo quando un’azienda rischia la chiusura per una delocalizzazione
o per una cattiva gestione, un altro conto è tentarlo quando i costi di
produzione sono insostenibili. «Oggi – riprende Lunghi – mancano le normali
basi di partenza. I lavoratori investono la loro disoccupazione e il loro Tfr nei
Wbo, ma chi garantisce loro che i prezzi dell’energia si abbasseranno?».

Le condizioni per rendere i Workers
Buyout una via efficace


Una regia nazionale, l’interazione con le amministrazioni pubbliche e il
coinvolgimento delle comunità. Secondo Francesco Gaeta sono i tre
fronti su cui lavorare per poter creare condizioni favorevoli allo sviluppo

e alla diffusione delle imprese recuperate dai lavoratori
di Francesco Gaeta
In un autunno che si annuncia freddo per la Produzione industriale e gelato
per molte aziende alle prese con bollette energetiche insostenibili, c’è una
novità che riguarda i Workers Buyout (Wbo), le imprese “recuperate e
comprate” dai lavoratori in forma cooperativa. Al tavolo del Ministero dello
Sviluppo che segue le crisi aziendali siedono da qualche mese i
rappresentanti di CFI, Cooperazione Finanza Impresa, società pubblica a cui
la Legge di bilancio 2021 assegna “l’attività di assistenza e consulenza volte
alla costituzione di società cooperative promosse da lavoratori provenienti da
aziende in crisi”. Sembra cosa da addetti ai lavori, ma – quale che sia il
governo che verrà – in questa fase potrebbe non esserlo.
CFI, fondo che per il 98% è in mano al Ministero dello Sviluppo e che oggi ha
un patrimonio netto di 107 milioni di euro, si occupa di cooperative fin dalla
legge Marcora, anno 1985. Tra il 1986 e il 2021 ha erogato finanziamenti
agevolati o è entrata nel capitale di 560 imprese cooperative di cui 317
(56,6%) nate su iniziativa degli ex dipendenti. Non grandi numeri: i lavoratori
che grazie a un WBO hanno salvato il posto sono stati circa 10mila.
Qualche caso ha fatto cronaca – quello della birra Messina per citarne uno –
ma è una storia fatta da episodi senza una trama. È mancata una logica di
sistema, un metodo per tracciare una via italiana al WBO. Dunque a quali
condizioni l’esperienza dei WBO può essere una soluzione praticabile in una
fase storica in cui prevedibilmente le crisi aziendali aumenteranno? Le parole
chiave sono tre: regia, negoziato, comunità.
Regia
Una regia nazionale significa sistematizzare gli interventi, cioè potenziare il
ventaglio di strumenti necessari al salvataggio: microcredito, fondi di garanzia,
prestiti subordinati, prestiti di partecipazione. È per questo che può essere
importante che al tavolo delle crisi dello Sviluppo sieda chi ha fondi e
competenze per sperimentare tra le altre anche questa soluzione.
Negoziato
Il negoziato è quello volto a coinvolgere nei territori l’amministrazione pubblica
nelle sue diverse articolazioni, ma anche associazioni di rappresentanza, enti
della cooperazione, fondazioni di comunità. È importante che questa rete
coinvolga non solo la vecchia proprietà e i lavoratori ma anche i sindacati, non
sempre e non tutti storicamente favorevoli a questo genere di soluzioni.
Comunità
Infine la comunità. Nessuna impresa è un’isola rispetto al suo territorio perché
produce – lo voglia o no – valore condiviso, ovvero occupazione per chi ci
lavora e coesione sociale per chi ci vive intorno. Per questo i casi di Workers
Buyout dovrebbero diventare a tendere casi di Community Buyout, aprendosi
a forme di azionariato diffuso o utilizzando strumenti pay-by-result, cioè forme
di investimento “paziente” e con un ritorno condizionato alle performance
aziendali (su tutto longevità aziendale e salvaguardia dell’occupazione) ma a
anche a impatti sociali generati. Su quest’ultimo punto i dati dicono bene.
Secondo Legacoop, la longevità media dei WBO è superiore a quella delle
imprese italiane: 15,2 anni contro 12. Per ogni lavoratore salvato (meglio: che
ha salvato se stesso) lo Stato ha investito circa 13.000 euro contro i 40.000
che avrebbe speso in ammortizzatori sociali in caso di licenziamento (dati
Confocooperative).

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