TUTTO ITS ACCADEMY – Non è vero che dopo il diploma ITS basta un anno di università per avere una laurea triennale

Non è vero che dopo il diploma ITS basta
un anno di università per avere una laurea
triennale


Ecco spiegati tutti i motivi per cui il diploma ITS non è e non può essere
una scorciatoia per la laurea
di Giulia Annovi


Dopo un diploma ITS basta un anno di università per ottenere una laurea
triennale. Questa affermazione è falsa. Non è sufficiente frequentare un
anno di università per ottenere una laurea triennale.
Tuttavia, sempre più persone contattano la nostra redazione nella speranza
che esista una modalità attraverso la quale sia possibile fare una sorta di
aggiornamento del diploma ITS, per portarlo a un gradino superiore.
Purtroppo questa strada non esiste. Una persona che ha frequentato un
ITS può sperare che gli vengano abbonati alcuni esami e quindi che il
percorso universitario venga accorciato di un po’.
Il dubbio sulle reali possibilità di acquisire una laurea in breve tempo
probabilmente sorge perché vengono conteggiati gli anni di studio: due anni
presso un ITS più uno presso l’università e sembra essere trascorso il tempo
necessario per ottenere una laurea.
Oppure quello che confonde è l’equiparazione europea del titolo: il diploma
ITS è un quinto livello mentre la laurea triennale corrisponde a un sesto livello
EQF. C’è solo un grado di separazione tra uno e l’altro.
Oppure ancora, quello che confonde ulteriormente famiglie e studenti è
l’introduzione di ITS triennali con la riforma approvata lo scorso luglio.
Anni di studio e crediti formativi
Il fatto che non sia sufficiente aggiungere al diploma ITS un anno di università
per ottenere la laurea triennale è dovuto al fatto che non sono tanto importanti
gli anni di studio. Lo dimostrano coloro che impiegano sei anni a frequentare
l’università senza ottenere una doppia laurea triennale.
Un titolo è definito dalla quantità di crediti formativi guadagnati durante il
percorso di formazione e non tanto dal numero di anni. E purtroppo i crediti
formativi ottenuti al termine di un percorso ITS non sono equivalenti a quelli
che si ottengono con due anni di università. Le università riconoscono almeno
40 CFU a una persona che ha frequentato un ITS. Al contrario, chi ha
frequentato due anni universitari può vedersi riconosciuti fino a 120 crediti.
Quindi, è impossibile con un ITS ottenere i crediti sufficienti per passare a un
terzo anno universitario. Al massimo, lo studente potrà saltare alcuni esami
che hanno un programma sovrapponibile a quanto appreso presso l’ITS.
Ciò che bisognerebbe definire con più chiarezza e trasparenza è la quantità di
crediti che possono essere riconosciuti. I CFU accumulati presso un ITS non
sono accettati e calcolati allo stesso modo presso tutti gli atenei. Sarebbe
dunque importante stabilire una sorta di regola generale che possa essere
applicata in tutta Italia.
Perché il percorso ITS è diverso da una laurea
Ma che succede con l’introduzione dei corsi di formazione triennali? La
riforma di luglio 2022 prevede la possibilità per gli ITS di offrire corsi di
formazione triennali. In questo caso come funziona il riconoscimento dei
crediti? Purtroppo, ancora una volta, le università riconoscono meno crediti
del necessario a chi proviene da un percorso ITS. Anche in seguito a un
percorso triennale presso un ITS Academy, i crediti riconosciuti sono almeno

  1. Troppo pochi rispetto a quei 180 ottenuti con una laurea triennale.
    Un diploma ITS triennale non è una laurea triennale. Tuttavia, a livello
    europeo sembrano essere entrambi riconosciuti come un VI livello EQF. Ciò
    significa che dal punto di vista pratico, e a livello di competenze, laurea e
    diploma ITS sono equiparabili, mentre invece non sono la stessa cosa se una
    persona volesse continuare un percorso accademico per ottenere una laurea
    quinquennale. In tal caso, conta solo la laurea triennale. Al contrario, è
    impossibile ottenere una laurea quinquennale a partire da un diploma ITS.
    In generale, possiamo affermare che la formazione offerta da un Istituto
    Tecnologico Superiore è diversa da quella accademica perché introduce una
    formazione pratica, improntata sulle richieste delle imprese e del
    territorio. C’è una certa distanza dalla formazione più teorica e rivolta alla
    ricerca che è tipica del mondo universitario.
    È un problema di obiettivi
    Resta da chiedersi a questo punto per quale motivo una persona che abbia
    intrapreso un percorso formativo presso un ITS desideri ottenere anche
    una laurea. È una questione di possibilità di lavoro? Non proprio, dato che
    secondo i dati Indire l’80% delle persone che ha concluso un percorso ITS
    trova lavoro a un anno dal diploma. E non è nemmeno un discorso di
    soddisfazione. Il 91% delle persone al termine di un percorso ITS trova un
    lavoro coerente con il percorso di studi.
    Forse allora è una questione di prestigio. Fa sempre un certo effetto
    ottenere un titolo di laurea piuttosto che di diploma? O è un problema di
    accesso a certi concorsi pubblici o al cosiddetto posto fisso, magari statale?
    Certo è che se una persona si iscrive presso un ITS con questi obiettivi forse
    sbaglia il percorso di studi. Per definizione chi si iscrive presso un ITS è
    orientato a un’occupazione di tipo aziendale e imprenditoriale. È
    interessato all’innovazione in questi ambiti e a trovare impiego presso
    aziende che cercano personale specializzato in diversi settori.
    È molto importante che venga fatta chiarezza su questo punto. E la chiarezza
    arriverà anche da decreti attuativi che sappiano definire in modo netto e
    univoco la figura del tecnico superiore, facendo le dovute distinzioni in base
    agli anni di studio.
    Inoltre, è fondamentale che ci sia trasparenza nella comunicazione da parte
    degli ITS. Cioè che siano descritte in modo chiaro le possibilità offerte da
    un diploma ITS, senza lasciare false speranze. È una chiarezza da adottare in
    fase di orientamento, in modo che agli studenti siano ben chiari gli sbocchi
    occupazionali del percorso che scelgono.
    Arrivare alla laurea dopo un ITS
    Per concludere, è bene sottolineare ancora una volta che per arrivare a una
    laurea triennale dopo un percorso ITS è necessario iscriversi all’università,
    sostenere esami e frequentare per un certo numero di anni. Non è possibile,
    dunque, ottenere la laurea triennale in un anno.
    Lo stesso vale per il percorso contrario. Chi, dopo una laurea triennale, cerca
    presso un ITS un percorso professionalizzante dovrà allo stesso modo
    frequentare l’intero percorso magari vedendosi certificata qualche prova
    intermedia. Anche se, neppure questo tipo di percorso è definito con
    chiarezza.
    Che cosa è stato fatto per gli ITS nei
    primi 100 giorni del Governo Meloni
    Dal ruolo del ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara alla
    proroga sul riparto del finanziamento ordinario delle risorse 2023
    di Riccardo Pieroni
    Con l’inizio di febbraio sono arrivati i primi 100 giorni di attività del Governo
    Meloni. Si tratta di “un momento utile per una prima verifica dell’attività
    dell’Esecutivo”, spiega Openpolis. Facciamo quindi un piccolo bilancio su ciò
    che è stato fatto in questi mesi per gli ITS Academy, protagonisti nella
    parte finale della scorsa legislatura con l’approvazione di un’importante
    riforma e destinatari di ingenti finanziamenti previsti dal Piano nazionale di
    ripresa e resilienza (Pnrr).
    Al momento gli Istituti Tecnologici Superiori non sembrerebbero rientrare tra
    le priorità dell’esecutivo di centrodestra. Gli ITS Academy non sono stati
    nemmeno nominati dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante le
    sue dichiarazioni programmatiche al Parlamento.
    Che cosa ha fatto Valditara
    Come vi abbiamo spiegato su TuttoITS il dicastero maggiormente competente
    sugli Istituti è il ministero dell’Istruzione e del merito (Mim), guidato da
    Giuseppe Valditara, esponente della Lega. Il ministro è intervenuto più volte
    sugli ITS Academy, con interviste e note. A novembre Valditara assicurava
    che entro la fine del 2022 sarebbero stati adottati “tutti i 19 decreti attuativi”
    richiesti dalla riforma sulla governance degli Istituti. L’impegno non è stato
    mantenuto e mancano all’appello numerosi decreti da adottare.
    In ritardo i decreti attuativi sulla riforma ITS: è (quasi) tutto nella norma
    Va però rilevato che il titolare del Mim ha firmato lo scorso 29 novembre un
    importante decreto: quello sulla ripartizione dei 500 milioni di euro in
    favore dei laboratori degli ITS Academy. Si tratta di fondi inseriti nell’ambito
    della missione Istruzione e ricerca del Pnrr che prevede un investimento
    complessivo di 1,5 miliardi di euro in favore degli Istituti.
    A dicembre Valditara è intervenuto in Parlamento per illustrare le linee
    programmatiche del suo dicastero. In quella sede ha spiegato che “serve una
    grande filiera sul modello tedesco“ e che gli ITS Academy “hanno uguale
    dignità delle università”.
    La proroga
    Finora uno dei pochi interventi del Governo Meloni sugli ITS Academy è una
    piccola norma contenuta nel cosiddetto decreto Milleproroghe, approvato
    lo scorso 21 dicembre dal Consiglio dei ministri.
    La misura in sostanza proroga l’attuale regime giuridico per il riparto del
    finanziamento ordinario delle risorse 2023. La norma risulta necessaria per
    “rendere disponibili nella prima metà dell’anno, come ordinariamente avviene,
    le risorse in favore degli ITS Academy“, spiega la relazione tecnica del
    decreto.
    Come affrontare il cambiamento di carriera
    Desiderare una svolta è legittimo, ma serve tempo per capire le
    motivazioni e maturare nuove competenze. Ecco le domande da porsi
    Cambiare carriera e aprirsi a una nuova sfida professionale: non è facile
    eppure molti ci provano, come raccontano spesso le cronache. Gli esempi
    non mancano: dal manager che si dimette e si trasforma in artigiano alla
    giornalista che decide di lanciare un brand di moda (e l’elenco potrebbe
    continuare). E c’è chi, per svoltare torna sui banchi: la formazione è la chiave
    vincente per riconfigurare una carriera e, come dimostra quella erogata negli
    ITS, un giusto bilanciamento tra teoria e pratica può più facilmente aprire le
    porte del mercato del lavoro, anche a chi è già attivo.
    Non è facile svoltare ma con metodo, e ponendosi le giuste domande, non è
    impossibile chiudere una parentesi della propria storia lavorativa e aprirne
    un’altra. Su quali aspetti bisogna riflettere, allora, per prepararsi al grande
    salto? Esaminiamo i principali, sotto forma di cinque quesiti.
  2. Perché lo faccio?
    Le motivazioni che spingono le persone a cambiare ambito o azienda
    possono variare, ma in tutti i casi è necessario sondarle bene prima di fare
    passi affrettati. Cosa crea conflitto e insoddisfazione, la mansione, i colleghi o
    la cultura aziendale? Ė il lavoro in sé ad annoiare o la mancanza di crescita e
    prospettive? Bisogna porsi queste domande e rispondere con grande sincerità
    per evitare di prendere decisioni mal ponderate. In alcuni casi, è necessario
    cambiare semplicemente azienda, mentre in altri è lecito ammettere che
    abbiamo dato tutto quello che potevamo in un determinato ruolo ed è tempo di
    voltare pagina.
  3. Dove mi dirigo?
    Il secondo step è capire quale potrebbe essere il nuovo settore in cui lavorare
    e avere successo. E perché scegliere proprio quello. Quali talenti abbiamo
    trascurato che potrebbero tornare utili nella nuova carriera che sogniamo?
    Cosa sappiamo dell’ambito in cui vorremmo operare, è statico o in
    evoluzione? La concretezza è necessaria, perché al netto degli entusiasmi
    iniziali, bisogna ragionare su scenari a medio-lungo termine. Inoltre, è
    impossibile scindere del tutto lavoro e vita privata: cambiare carriera significa
    anche chiedersi: “dove vorrei vivere?”, “quanto tempo voglio dedicare alla
    professione?”, “ho voglia di essere autonomo/dipendente?”, “ho risorse per
    avviare l’attività che sogno?”. Bisogna ragionare su numerose dinamiche.
  4. Come approccio il cambiamento reale?
    Le competenze maturate in alcuni casi saranno spendibili nel nuovo contesto
    ma altre skills forse mancheranno all’appello. Non è un problema solo per chi
    aspira a lavorare come dipendente ma anche per chi punta ad aprire
    un’attività in proprio. Bisognerà valutare per tempo come ovviare al problema,
    frequentando eventualmente corsi di formazione, di aggiornamento, master e
    scuole ad hoc o un ITS, una formazione secondaria di secondo livello che
    è proiettata sul lavoro e apre le porte anche a chi già ha un’occupazione.
    Non bisogna sottovalutare la chance di concedersi uno stress test sul campo.
    Pensiamo a un professionista che vuole lasciare un lavoro d’ufficio e aprire un
    locale e ha nella sua cerchia di contatti un amico che ha già un’attività.
    Potrebbe nel tempo libero mettersi all’opera e capire cosa lo aspetta o
    concedersi una fase di “job shadowing” per osservare e cominciare a capire.
    Insomma, fare un periodo di prova è utile. Naturalmente, niente vieta anche di
    valorizzare i contatti sui social (in particolare su Linkedin) o di contattare
    persone che possono dare i giusti consigli.
  5. Quando dare il via al cambiamento?
    Per cambiare carriera, serve tempo. Se a mutare infatti non è solo la
    mansione ma l’intero settore, e perfino il contesto geografico, serve una
    pianificazione realistica e ben calibrata. Certo, c’è chi lascia di punto in bianco
    e poi si concede del tempo ma in molti casi è meglio agire con più lentezza o
    usare le opportunità a disposizione per iniziare a ripensare il cv e magari
    fare formazione, sfruttando ad esempio le ferie arretrate. In genere impostare
    un periodo di tempo, ci aiuta a pensare il cambiamento non come un salto nel
    vuoto ma come ad una road map fattibile se si accetta di avere pazienza e di
    dare valore a ogni tappa.
  6. Posso cambiare dall’interno?
    Un ultimo aspetto da non sottovalutare, specialmente per chi lavora in realtà
    grandi: è possibile cambiare all’interno del contesto in cui siamo già? Ci sono
    opportunità di spostarsi in un altro dipartimento o in una posizione che
    rispecchi meglio bisogni ed esigenze del nostro presente professionale?
    Prima di buttare via il percorso fatto e il network creato negli anni, è meglio
    parlare con il responsabile delle risorse umane o con il proprio dirigente. E
    avviare quindi una transizione più soft e meno radical.
    ITS e università: una coesistenza e non
    una competizione
    Troppo spesso si pensano università e ITS in antitesi, complice anche la
    confusione normativa. Tuttavia, fra le due istituzioni si può immaginare
    tanto una coesistenza quanto una cooperazione utili a salvare il capitale
    umano e risanare il tessuto economico
    di Martina Grinello
    I giovani italiani vivono una condizione di grande vulnerabilità, dovuta
    specialmente alle difficoltà del percorso di inserimento lavorativo dopo gli
    studi. La pandemia ha acuito la situazione, incrementando le proporzioni del
    disagio giovanile, le cui cause però precedono di gran lunga l’emergenza
    sanitaria. Fra queste, ricopre un peso importante l’incompatibilità delle
    competenze richieste dal mercato e quelle acquisite dai giovani nei percorsi
    educativi. Si tratta del cosiddetto skill mismatch, che contribuisce
    considerevolmente ad aumentare l’incertezza verso il futuro. Questo
    fenomeno, infatti, ostacola le possibilità di conquistare non solo una stabilità
    economica, ma anche quella di vivere una carriera lavorativa appagante.
    Formazione e mercato del lavoro: due mondi paralleli
    Lo skill mismatch descrive lo scollamento tra domanda e offerta di
    competenze nel mercato, e causa una incapacità di rintracciare gli
    specialisti di cui si ha effettivamente bisogno. Secondo i dati Eurostat 2022,
    l’Italia è il paese Ocse più colpito da questa discrepanza, che riguarda
    specialmente i giovani neodiplomati e neolaureati.
    Infatti, l’Istat informa che l’Italia è collocata al di sotto della media europea
    relativamente all’occupazione e all’istruzione. Il tasso di disoccupazione
    giovanile è superiore di 22,8 punti rispetto agli altri paesi europei, e ad oggi i
    giovani disoccupati sono pari al 23.7%. Per i laureati tra i 30 e 34 anni inserirsi
    nel mondo del lavoro è difficilissimo. In molti casi, significa accettare posizioni
    lavorative che richiedono competenze inferiori rispetto a quelle acquisite
    durante l’università. I dati Eurostat sottolineano che quattro laureati su dieci
    non riescono ad avere un lavoro entro i 36 mesi dal completamento del ciclo
    di studi. Insomma, inserirsi nel mercato del lavoro in Italia è un incubo,
    anche quando si possiedono titoli universitari e post-universitari.
    Dunque i giovani vogliono essere impiegati, ma non hanno le competenze
    necessarie a inserirsi efficacemente nel mercato italiano.
    Così, il capitale umano nel sistema produttivo italiano viene svalutato e il
    numero di neet (i giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano)
    aumenta. In Italia i neet sono oltre due milioni, quindi al 22%, rispetto ad una
    media europea del 12,5%.
    Cosa manca ai giovani che invece serve al mercato?
    Come osservato dall’Istat, le competenze richieste sono quelle più
    professionalizzanti, emarginate rispetto alle altre anche a causa dell’annosa
    contrapposizione tra discipline umanistiche e discipline tecniche.
    In La Scienza negata. Un caso italiano, Enrico Bellone ricorda lo scontro tra
    Federigo Enriques e i filosofi Giovanni Gentile e Benedetto Croce, durante i
    primi del Novecento. Proprio Croce ha affermato che le discipline
    storico-filosofiche fossero adatte agli “intelletti profondi”, mentre quelle
    tecnico-scientifiche appannaggio degli “intelletti minuti”.
    Tale organizzazione del sapere si è sedimentata in una gerarchia culturale
    che vive ancora oggi. Il vertice della piramide è rappresentato dal liceo
    classico, mentre gli stadi inferiori dalle discipline tecniche che forniscono
    competenze immediatamente spendibili nel mondo del lavoro.
    Questa organizzazione del sapere evidenzia le radici del pregiudizio secondo
    cui gli ITS sarebbero i cugini poveri dell’università, a causa del quale
    immaginare una coesistenza fra le due istituzioni diventa difficile. Allo stesso
    tempo è un bias che legittima lo scollamento tra cittadino e lavoratore,
    ostacolando la genesi di una base economica solida alla quale affidarsi.
    La situazione è aggravata da una evidente confusione normativa che non
    esplicita le differenze e le convergenze tra le due istituzioni. Così, si perpetua
    l’esclusione degli ITS e della formazione che propongono.
    Coesistenza e collaborazione per la crescita
    Esistono delle differenze fra gli ITS e l’università: negare significherebbe non
    riconoscere gli specifici vantaggi che propongono e i grandi risultati in
    termini sociali, culturali ed economici che deriverebbero da una loro
    collaborazione. Grazie al radicamento nel territorio e alla capacità di
    connettere domanda e offerta (testimoni i livelli di occupazione altissimi al
    termine degli studi) gli ITS rappresentano una risorsa enorme che non può
    essere sottovalutata né ignorata. Inoltre, nulla vieta a un neolaureato di
    implementare le proprie competenze grazie a un percorso altamente
    professionalizzante come quello offerto da un Istituto Tecnologico Superiore.
    Non si tratta di un aut-aut, e quindi non è necessario prendere posizione a
    favore della formazione universitaria o di quella tecnica superiore. Piuttosto, si
    può immaginare il riconoscimento delle rispettive sfere di competenza a cui
    dovrebbe seguire una rispettosa coesistenza, che può contemplare anche
    un’utile collaborazione.
    Per costruire un legame di questo genere è necessario anzitutto riflettere sulla
    dignità negata alla formazione professionalizzante e sulla sua intersezione
    con i reali bisogni del mercato. Innovazione e crescita non possono
    prescindere da questo riconoscimento.
    Infatti, un paese che non dota i cittadini delle abilità effettivamente richieste
    dal proprio mercato è destinato a sprecare una insostenibile quantità di
    risorse, fra cui il capitale umano, che è il più prezioso.
    fonte: TUTTO ITS ACCADEMY

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