PER SAPERNE DI PIU’ – UN ANNO DI GUERRA 12 GRAFICI PER CAPIRE COME È CAMBIATO IL MONDO

UN ANNO DI GUERRA
12 GRAFICI PER CAPIRE COME È
CAMBIATO IL MONDO


12 mesi di guerra in 12 grafici che raccontano un mondo cambiato, di
illusioni e tabù infranti: dall’addio alle armi, al ritorno della NATO, fino
all’interdipendenza economica che da scudo diventa spada.
Partiamo da un’ovvietà: un anno dopo a essere diversa è innanzitutto
l’Ucraina. Già prima della guerra, i russi controllano circa 45mila km2 di
territorio ucraino (l’equivalente della superficie congiunta di Piemonte e
Lombardia). All’apice delle loro conquiste toccato il 22 marzo, i russi
detenevano 160mila km2 di Ucraina (poco più della metà delle dimensioni
dell’Italia). Dall’estate in poi, la controffensiva ucraina ha recuperato circa
il 50% dei territori persi nell’ultimo anno. Ma nonostante questa
controffensiva di successo, la Russia ancora controlla il doppio di
territorio ucraino rispetto a prima del 24 febbraio 2022.
Ecco perché la richiesta di armi da parte di Kiev continua a essere
incessante nonostante negli ultimi 12 mesi il supporto militare (e non) degli
alleati sia cresciuto esponenzialmente: siamo passati dalla reticenza
(tedesca) a dare armi (ricordiamoci delle polemiche quando il primo invio
tedesco verso l’Ucraina consisteva in soli elmetti) all’invio (a guida tedesca)
dei Leopard 2. Uno sforzo la cui entità è evidente guardando al progressivo
svuotamento dei depositi occidentali soprattutto tra i Paesi dell’est Europa:
mediamente una su cinque delle armi pesanti in dotazione alla Repubblica
Ceca sono state o saranno inviate all’Ucraina.
La stessa evidenza emerge analizzando la portata degli aiuti militari americani
a Kiev. In particolare, i quasi 23 miliardi di dollari di assistenza militare
ricevuti dall’Ucraina nel 2022 sono il doppio di tutti gli aiuti militari dati dagli
USA a tutto il mondo nel 2020. Per Israele, principale beneficiario di allora,
l’assistenza militare fu di 3,3 miliardi di dollari.
Nonostante queste cifre ingenti, è però innegabile che nel corso dell’anno
sia prevalsa una strategia di invii ponderati, parziali e più o meno
volutamente ritardati. Niente missili a lunga gittata (Atacsm) ma sì a quelli
a media gittata (Glsdb); Kiev chiede 300 carri armati all’avanguardia e
ne riceverà 300 ma nel corso di un anno, e metà di questi sono vecchi
Leopard 1 o aggiornamenti di modelli sovietici come i PT-91 polacchi.
Un atteggiamento in parte dovuto alla volontà di non provocare una
escalation della guerra, dall’altro dalla necessità di non indebolire
eccessivamente i propri reparti militari, in un momento in cui il bisogno di
sicurezza è in cima a tutte le agende mondiali. Abbiamo infatti
riscoperto i numeri sugli arsenali nucleari, capito la differenza tra
ordigno strategico e non, visto analisi di possibili traiettorie e aree di
impatto. Ricordi seppelliti dalla guerra fredda quando ci eravamo abituati
a presidenti che viaggiavano con la valigetta nucleare al seguito. Per poi
illuderci che questo spettro di una guerra atomica si fosse dissolto
con il crollo dell’Unione sovietica. Il 28 febbraio, Putin ha poi ordinato
l’allerta del sistema difensivo nucleare russo: non accadeva dal 1962 che
un paese dotato di testate nucleari non annunciava apertamente un tale
stato di maggiore prontezza al lancio.
La risposta internazionale in questo senso è sì stata quella di una
condanna più o meno unanime (contenuta nel final communiqué del G20
in Indonesia) ma anche di parallela corsa alle armi. Basta guardare a
Giappone e Germania, i due grandi sconfitti della Seconda Guerra
Mondiale. Tokyo ha annunciato un nuovo budget militare quinquennale
da 300 miliardi di euro, in crescita del 58% rispetto allo stanziamento
relativo al periodo 2018-2022. Un balzo che porterà la percentuale di
PIL in spese per la difesa al 2% dall’attuale 1,1%. E anche in
Germania, il budget militare nel prossimo quinquennio crescerà e non di
poco: + 56%, raggiungendo i 405 miliardi di euro, e il 2% del PIL (1,4%
nel 2022).
Sbagliavamo dunque a pensare che gli armamenti fossero ormai utili solo
per la deterrenza, in un mondo in cui la guerra non poteva accadere visto le
interdipendenze economiche in gioco. Ci eravamo illusi che dove passano le
merci non passano gli eserciti. Invece abbiamo visto che dove passano gli
eserciti non passano le merci, che le interdipendenze diventano armi, e
che neanche le riserve di una economia G20 sono intoccabili.
Insomma, non siamo più nel mondo riassumibile nella frase di Bill Clinton
durante la campagna elettorale del 1992: “it’s the economy, stupid”
(l’economia prevale su tutto, pure sulla volontà di fare una guerra) ma in un
contesto di “it’s geopolitics, stupid” (prevalgono gli interessi nazionali su
quelli economici). Un mondo in cui la Russia, così come la Cina, non verranno
occidentalizzate dagli scambi commerciali, e in cui di conseguenza il modello
economico tedesco (e in parte europeo) è messo in crisi: niente più energia
a basso costo dalla Russia con i Nord Stream ormai chiusi e oggetto di
sabotaggio; meno certezze sulla Cina come mercato di sbocco per il made in
Germany; non più sicurezza appaltabile solo agli Stati Uniti.
Non deve sorprendere quindi che in un anno in cui la borsa mondiale ha quasi
perso il 20% del suo valore, i principali produttori di armi hanno registrato
un anno di forte crescita: +15% di capitalizzazione annua (comunque meno
del +66% della capitalizzazione delle top 5 imprese produttrici di idrocarburi
alla faccia della transizione verde).
Non deve sorprendere quindi che in un anno in cui la borsa mondiale ha quasi
perso il 20% del suo valore, i principali produttori di armi hanno registrato
una forte crescita: +15% di capitalizzazione annua (comunque meno del
+66% della capitalizzazione delle top 5 imprese produttrici di idrocarburi alla
faccia della transizione verde).
Anche perché lo shopping militare dell’est Europa ha raggiunto livelli
record. Lo testimonia l’accordo da 10 miliardi di dollari della Polonia con gli
USA per l’acquisto di: 18 lanciatori Himars, 45 missili a lunga gittata Atacsm
oltre a F35 e 250 carri Abrams. Una lista che fa impallidire le richieste ucraine.
Non a caso Biden ha scelto proprio la Polonia come metà nel suo viaggio
simbolico in Europa per l’anniversario della guerra. E così come per la
Turchia ed Erdogan, passato in un anno dall’essere un dittatore (parole di
Draghi) all’essere l’unico mediatore efficace nella guerra, anche la Polonia ha
avuto in quest’anno un boost di immagine. Non più al centro delle notizie
per il mancato rispetto dello stato di diritto, ma per il supporto a Kiev e per
essere il campione di accoglienza dei profughi ucraini (davanti a Germania e
Rep. Ceca).
1,5 milioni quelli che sono scappati in Polonia, che fino a prima della guerra
contava complessivamente meno di 5000 rifugiati. Ma anche negli altri Paesi
del gruppo di Visegrád, non certi noti per una politica delle porte aperte, il
numero di profughi e rifugiati è passato da poche migliaia a più di mezzo
milione. Complessivamente, a livello europeo, l’accoglienza è triplicata:
attualmente vi sono 7,2 milioni di rifugiati e profughi vs i 2,6 milioni pre-guerra.
In questo mondo con meno certezze, tabù e illusioni, ci si unisce con chi
condivide la stessa visione del mondo e di valori. Ecco, quindi, che la NATO
da che nel 2019 veniva definita morta cerebralmente da Macron ora torna
ad espandersi facendo cadere un altro tabù: la neutralità di Svezia e
Finlandia.
In questo mondo con meno certezze, tabù e illusioni, ci si unisce con chi
condivide la stessa visione del mondo e dei valori. Ecco, quindi, che la NATO
da che nel 2019 veniva definita morta cerebralmente da Macron ora torna
ad espandersi facendo cadere un altro tabù: la neutralità di Svezia e
Finlandia.
Non finisce qui: le sue forze sul fianco est sono state quadruplicate e ora
contano 8 battle groups per un totale di 40 mila soldati sotto diretto
comando dell’Alleanza. Che ha anche aumentato la sua forza di risposta
rapida da 40mila a 300mila effettivi. Senza contare poi che in parallelo cresce
anche l’impegno USA in Europa: da 80mila a 100mila soldati. E non a caso
aumenta la percezione degli esperti ISPI sul peso degli USA sulla scena
globale.
Ma come il fronte occidentale anche quello “avversario” si compatta. I BRICS
nonostante le disparità economiche al loro interno (la Cina rappresenta il
71% del PIL del gruppo, contro il 14% dell’India; Brasile 7%; Russia 7%; Sud
Africa 2%), hanno evitato, pur tra mille sfumature, di prendere una posizione
sulla guerra, approfittando delle situazioni loro favorevoli (vedi l’India con
il petrolio russo) e aprendo alla possibilità di nuovi membri (Argentina, Algeria,
Iran sono i tre Paesi candidati ufficialmente a entrare nel gruppo).
Al contrario ci si divide nei fora che raccolgono Paesi non “like-minded”.
Basti pensare alla COP in sordina di quest’anno, al G20 in cui si
abbandonano i tavoli di discussione se è presente un rappresentante
“nemico”, alle Nazioni Unite che al più sono riuscite a riaprire i corridoi
del grano senza riuscire per mesi a creare quelli umanitari per la fuoriuscita
dei civili da Mariupol. Non poteva essere altrimenti: alle diverse votazioni in
sede ONU in condanna della guerra in Ucraina, si sono astenuti Paesi che
complessivamente rappresentano quasi metà della popolazione
mondiale.
Un risultato che testimonia come più degli ideali siano gli interessi strategici
l’ago della bilancia nel posizionamento rispetto a questo conflitto. Così l’India
ha scelto di rimanere neutrale perché così facendo può importare quantità
ingenti di petrolio russo scontato di 30 dollari rispetto allo standard
internazionale di riferimento (Brent). In 12 mesi ha aumentato del 5300% le
sue importazioni di greggio russo (da 24mila barili al giorno a 1,3 milioni)
diventandone il primo importatore al mondo
Anche l’Europa però nella sua disperata ricerca di un sostituto del gas
russo ha guardato al pragmatismo più che alla coerenza. Mosca ha
gradualmente chiuso i rubinetti delle sue esportazioni di gas verso l’Europa,
che nel corso di quest’anno si sono ridotte dell’80%. Il peso del gas russo
tra i fornitori dell’UE è così sceso sotto il 10%. L’UE è così corsa ai ripari
comprando GNL a tutti i costi, tanto che ora circa metà delle sue importazioni
di gas sono in forma liquefatta.
Ma in nome della sicurezza energetica è stato anche necessario firmare
accordi con Paesi non poi così allineati con l’Occidente: come quelli sul
gas con Algeria impegnata a novembre in esercitazioni militari congiunte con
la Russia. E si è voluto chiudere un occhio sulla transizione energetica,
visto che si è registrata una crescita annua del 6% nel consumo di carbone da
parte dell’UE. In particolare, la Germania ha rimesso in funzione centrali
termoelettriche a carbone, aumentandone il consumo annuo del 19%; il
parlamento bulgaro ha invece votato a gran maggioranza (con 187 voti a
favore e 11 contro) una risoluzione volta ad evitare la chiusura entro il 2025
delle principali centrali elettriche a carbone del Paese.
Dietro le decisioni dei Paesi europei c’era un’urgenza di calmierare prezzi del
gas che ad agosto 2022 hanno superato quota 300 euro al megawattora, a
fronte di una media storica di 20 euro per MWh. In cerca di una politica
energetica veramente comunitaria si sono adottate soluzioni intermedie
(vedi acquisti congiunti che coprono solo il 4,5% della capacità di stoccaggio
di gas europea) o divisive (ricordiamoci i 9 mesi di discussioni sul tetto al
prezzo del gas). Di conseguenza, di fronte a bollette record, la risposta
europea è stata soprattutto sul piano delle politiche fiscali: nell’ultimo
anno sono stati stanziati 740 miliardi di euro, poco meno dei 750 del Recovery
Fund.
Spiccano i quasi 250 miliardi di euro messi in campo dal governo
tedesco, pari a circa il 7,5% del PIL del Paese, e più di quanto speso (210
miliardi) dal resto dei governi della UE se si escludono Italia e Francia. Questa
disparità evidente ha portato più di una critica nei confronti di Berlino
accusata di distorcere il mercato interno, utilizzando uno spazio fiscale che
il resto d’Europa semplicemente non può permettersi. Queste stesse accuse
sono ora ribadite dalla maggior parte degli Stati membri nell’ambito delle
discussioni sulla risposta europea all’Inflation Reduction Act americano
(IRA). Si teme che l’allentamento delle regole sugli aiuti di Stato proposto da
Germania e Francia, per far fronte ai 369 miliardi di dollari in sussidi e gravi
per favorire l’industria green americana, crei ulteriori squilibri nel mercato
unico in favore proprio di Parigi e Berlino (destinatarie del 77% degli aiuti
di Stato approvati nell’ambito dell’attuale quadro temporaneo).
Questa è solo una delle crepe che si osservano nel tessuto europeo (che
comunque ha dato prova di un’inedita coesione nell’ultimo anno come
dimostrano i quasi 10 pacchetti di sanzioni alla Russia approvati). Dall’inizio
della guerra si è sempre più rafforzata una distanza tra chi come i Paesi
dell’Est e la Gran Bretagna è in prima linea nel rifornire militarmente Kiev, e
chi come gli Stati membri mediterranei modera maggiormente il proprio
supporto.
In un anno in cui il mondo ha virato verso un ritorno alle armi, al
rafforzamento delle alleanze, al prevalere degli interessi strategici ed
energetici su quelli economici e sugli ideali, una cosa è quindi rimasta uguale
a se stessa: l’incertezza su come porre fine al conflitto in Ucraina.


fonte: ISTITUTO PER GLI STUDI DI POLITICA INTERNAZIONALE

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