L’impatto delle tecnologie 4.0 su domanda di lavoro e competenze: le rilevazioni INAPP e le lezioni da apprendere per il futuro

L’impatto delle tecnologie 4.0 su domanda di
lavoro e competenze: le rilevazioni INAPP e le
lezioni da apprendere per il futuro

di Michelle Crisantemi

La diffusione delle nuove tecnologie ha spinto le aziende verso un nuovo
paradigma tecnologico e produttivo, ormai noto come quarta rivoluzione
industriale. La letteratura scientifica nazionale e internazionale analizza, ormai
da diversi anni, gli effetti di queste tecnologie sulle varie dimensioni del
lavoro e su vari fattori competitivi delle aziende. Tuttavia, giungere a
conclusioni univoche e complete non è semplice, vista l’eterogeneità dei fattori
da prendere in considerazione e dei contesti specifici che riguardano varie
aziende.
Nel particolare, le ricerche condotte finora non forniscono evidenze esaustive
sulle strategie di investimento e innovazione delle PMI, sui modelli
manageriali e comportamentali che influiscono sull’organizzazione delle
aziende, nonché sul profilo delle competenze e dei fabbisogni professionali
che sono necessari in questa epoca industriale.
Anche l’analisi di queste competenze è spesso difficoltosa, poiché legata alla
situazione specifica della rete territoriale a cui sono legate le aziende, che
vede una forte interconnessione tra PMI e strat-up innovative con università e
istituti di formazione tecnica e centri per il trasferimento tecnologico, a cui
spesso si aggiunge la presenza di una o due grandi aziende di riferimento del
territorio.
Uno scenario molto complesso, dunque. Capire queste relazioni e
analizzare i vari fattori di complessità è però fondamentale per fornire ai policy
maker le indicazioni necessarie per promuovere politiche in grado di
rispondere ai bisogni delle aziende, soprattutto in materia di competenze.
Un ambito in cui l’Italia ha performance tutt’altro che soddisfacenti in Europa,
come hanno dimostrato sia l’European Skill Index – l’indicatore del Cedefop (il
centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale) che misura le
performance del sistema europeo delle competenze –, dove l’Italia ha perso 3
posizioni dal 2016 al 2020 (ed è ora ultima in classifica), sia l’ultimo rapporto
Desi, che posiziona il nostro Paese al terzultimo posto nel capitale umano.
Tecnologie e competenze, l’analisi di INAPP e Politecnico di Torino
Ed è da questi presupposti che è partito il convegno dell’INAPP che ha
analizzato la risposta delle imprese rispetto all’adozione delle tecnologie 4.0 e
le conseguenze di tale approccio sul sistema delle competenze, partendo
dalle analisi realizzate in convenzione con il Politecnico di Torino nel periodo
2019-2021.
Il lavoro si è sviluppato lungo diversi filoni: dall’analisi della letteratura
socio-economica disponibile relativa all’evidenza empirica del cambiamento
tecnologico, alla ricerca di metodologie per analizzare i 25 casi studio
individuati, al lavoro fatto con i focus group – che hanno coinvolto grandi
aziende con alta capacità di innovazione tecnologica, attori del sistema
formativo e scolastico –, fino a giungere alle osservazioni conclusive dirette a
supportare le scelte dei policymaker.
Uno degli obiettivi principali è stato individuare quali competenze sono
complementari e quali sostitutive all’azione delle tecnologie digitali e in che
misura sono oggetto di mismatch tra domanda e offerta di competenze.
La parola chiave dello studio condotto – che ha interessato circa 130 persone
– è proprio l’eterogeneità del campione e dei fattori analizzati, che
comprendono dimensioni dell’impresa, posizione geografica, caratteristiche
imprenditoriali e tipo di investimenti realizzati.
Nello specifico, sono state prese in considerazione quattro tecnologie
dell’Industria 4.0, ovvero: robotica, Internet of Things (IoT), Big Data e cyber
security.
I risultati dello studio
Lo studio ha permesso sia di giungere a risultati condivisi da tutto il campione,
sia di osservare particolarità riguardanti uno o più sotto campioni specifici.
Le considerazioni che si estendono a tutto il campione analizzato riguardano
una correlazione positiva molto evidente tra il livello di istruzione del
management e l’investimento dell’impresa in almeno una delle tecnologie 4.0
e in cyber security. Inoltre, le imprese a conduzione familiare tendono a
investire di più in almeno una di queste tecnologie e in particolare in cyber
security.
Ultimo fattore, che si è riscontrato in tutti i campioni analizzati, riguarda la
produttività: a livelli di produttività più elevati corrisponde una maggiore
probabilità di investimento nelle tecnologie di Industria 4.0.
Risultati che sono stati sostanzialmente confermati dall’analisi riferita al sotto
campione “imprese con più di 50 dipendenti”, dove vi è una correlazione
ancora maggiore con il livello di istruzione del management, mentre scende
l’effetto della proprietà familiare sugli investimenti. Contrariamente, vi è una
correlazione ancora più positiva tra una produttività elevata e investimenti in
tecnologie 4.0.
Restringendo questa analisi alle sole imprese del nord Italia con più di 50
dipendenti, si evidenzia un aumento ancora maggiore della correlazione
positiva tra istruzione del manager e investimenti in cyber security, ma non
degli investimenti in almeno una tecnologia dell’ambito 4.0. Una correlazione
particolarmente positiva si osserva per quanto riguarda i Big Data. Allo stesso
modo, la correlazione cresce anche tra maggiore produttività e investimenti.
All’aumentare delle dimensioni aziendali – in questo caso il sotto campione di
riferimento è quello delle aziende del nord con più di 250 dipendenti –
l’istruzione del management e la proprietà familiare non risultano più fattori
significativi.
Contrariamente, in questo campione si osserva una correlazione positiva tra
età del manager e investimenti in tecnologie 4.0: gli investimenti maggiori si
sono riscontrati in quelle imprese dove l’età dei manager è più avanzata.
I quattro modelli di digitalizzazione emersi dallo studio
L’analisi qualitativa dei risultati, che ha preso in esame i 25 casi studi, si è
invece concentrata sull’individuazione di modelli replicabili di impatto delle
tecnologie sulle competenze, in contesti industriali diversi. Un’analisi che
andrà avanti anche nei prossimi mesi, vista l’ampiezza del materiale raccolto.
L’analisi ha individuato quattro configurazioni di investimento.
La prima è caratterizzata da aziende di dimensione medio-piccola (sotto i 100
dipendenti) dove la digitalizzazione avviene principalmente nell’ambito della
progettazione e dello sviluppo del prodotto.
Si tratta di aziende che generalmente lavorano insieme a un leader di filiera
internazionale allo sviluppo del prodotto, traducendo i bisogni del clienti in
requisiti. In questo caso, le tecnologie digitali in cui si investe sono quelle dei
Digital Twin (tramite CAD 3D).
In questo modello, il tema prevalente è cercare di migliorare il rapporto con
il leader di filiera nello sviluppo del prodotto. “In molti casi vediamo
un’evoluzione di queste aziende da sviluppo e ingegneria per il distretto locale
a una capacità di posizionarsi sulla catena globale del valore, quindi in un
certo senso la digitalizzazione è un elemento che supporta
l’internazionalizzazione”, spiega Paolo Neirotti, Direttore della Scuola Master e
Formazione Permanente presso il Politecnico di Torino.
Quello che si osserva in questa configurazione – caratterizzata anche da un
livello medio-basso di integrazione tra sistemi informativi – è che la
digitalizzazione sta diminuendo l’incidenza di conoscenza tacite ed
esperienziali nella progettazione della produzione, poiché la digitalizzazione
favorisce la codificabilità di diverse task.
In questa configurazione, inoltre, si riscontra un’adozione di algoritmi di
Intelligenza Artificiale (AI) piuttosto bassa e finalizzata al processo decisionale
della forza lavoro. Le tecnologie digitali, in questo tipo di aziende, aumentano
anche la domanda di competenze relazionali e di negoziazione con il
cliente (anche di capacità linguistiche, trattandosi di aziende che lavorano con
leader internazionali).
Il secondo cluster è quello delle grandi aziende con una produzione a grandi
lotti, o a flusso continuo, con grandi livelli di capital intensity. In queste
aziende, la digitalizzazione è di complemento all’automazione, quindi a tutti gli
investimenti avviati ad inizio anni ’90.
Il driver competitivo per questo cluster è il miglioramento dell’efficienza e
livello di servizio, ridurre fermi macchina e ottimizzare impiego della capacità
produttiva. Le tecnologie adottate sono dunque l’IoT, MES (Manufacturing
Execution Systems), cloud e AI.
Per queste aziende, lo sforzo di integrazione dei sistemi informativi è molto
alto, mentre il pericolo è che si creino delle dipendenze relazionali rispetto a
determinati vendor di tecnologia.
In questo cluster, l’impatto sul lavoro riguarda principalmente i livelli
intermedi, a cui vengono richieste più competenze di analisi dei dati, ma
anche di leadership. In aggiunta, in quei casi dove si è osservato un impiego
maggiore dell’AI, è emersa anche una maggiore necessità di
coinvolgimento dei ruoli operativi nell’interpretazione dei corsi di azione
suggeriti dagli algoritmi.
Nel terzo cluster sono state raggruppate aziende di dimensioni inferiori
rispetto a quelle del secondo che possono produrre per grandi o piccoli lotti,
con processi di lavoro più labour intensive e con un’integrazione verticale
medio-bassa, quindi più complesse a livello logistico.
Nelle imprese del cluster dove si sono notati maggiori flussi internazionali, sia
in entrata che in uscita, le tecnologie digitali utilizzate sono finalizzate a
tracciare i flussi e ad assicurarne il monitoraggio. Efficienza e flessibilità
produttiva sono il driver competitivo per queste aziende, quindi le tecnologie
utilizzate riguardano la digitalizzazione e l’automazione delle attività di
magazzino.
“Altro aspetto saliente è che in questo cluster la digitalizzazione non riguarda
tutto il processo produttivo, ma avviene a macchia di leopardo, interessando
i colli di bottiglia del processo di produzione. In questo cluster, il
coinvolgimento dei ruoli intermedi serve per portare avanti la digitalizzazione,
visto che avviene a livello locale e poco per volta si espande a tutto il
processo produttivo”, spiega Neriotti.
Il quarto cluster è, invece, caratterizzato dalla presenza di PMI specializzate
sulla produzione su piccoli lotti o in servizi. Aziende che hanno bisogno di
aumentare il livello di servizio soprattutto per clienti internazionali e che
investono in diverse tecnologie abilitanti: data management e analytics, cloud,
magazzino automatico (nel caso che siano presenti prodotti fisici) e
Augmented e Virtual Reality.
Tecnologie che influiscono soprattutto sui ruoli commerciali, in quanto
digitalizzandosi queste aziende vanno a sviluppare servizi molto complessi,
dove vengono richieste capacità di sviluppo agile, di project management e
contabilità di commessa.
Gli impatti della digitalizzazione sulle competenze
La comparazione delle evidenze riscontrate non ha permesso di individuare
tendenze comuni a tutti e quattro i cluster, proprio per la loro eterogeneità.
Dalle evidenze empiriche emerge che la digitalizzazione osservata nel primo
cluster, quindi relativa ad attività di sviluppo e prodotto, non produce un
cambiamento di rilievo nelle competenze del team manageriale e nemmeno
nel middle management.
La configurazione che sollecita un bisogno maggiore di competenze nel team
manageriale è quella relativa a nuove logiche di servizio attraverso il digitale,
riconducibile al cluster 4. In questo, sono richieste maggiori capacità di
assorbimento esterno di tecnologie.
Questa configurazione, inoltre, richiede un posizionamento su ecosistemi
digitali che sono ancora embrionali e si possono progressivamente sostituire a
filiera lineare tradizionale. Ciò porta le imprese di media dimensione ad
assumere figure specializzate nella gestione del processo di innovazione
(CTO o innovation manager), che vengono ricercate all’esterno dell’azienda
Invece, le configurazioni legate alla digitalizzazione del processo
produttivo, quindi i cluster 2 e 3, non producono un fabbisogno di
competenze su ruoli manageriali, ma solo intermedi. Sono proprio questi i
ruoli dove la digitalizzazione produce, in generale, cambiamenti più salienti
nelle competenze richieste: nello specifico, emerge un fabbisogno di un mix
di competenze, che siano gestionali, relazionali e di analisi di dati.
Nelle aziende prese a campione, si è osservato un processo di
digitalizzazione che procede a macchie di leopardo, a causa della mancanza
di figure informatiche intermedie (informatici di fabbrica), dalla difficoltà
delle imprese a internazionalizzare le capacità digitali e, quindi, a dipendere
da aziende terze (system integrator).
A questi fattori si aggiunge la capacità delle imprese di costruire pratiche e
sistemi ad alto coinvolgimento dei ruoli operativi.
Si osserva, inoltre, che dove le pratiche gestionali della lean production sono
radicate in modo più sistemico, l’avanzamento della digitalizzazione è più
lento – perché interessa tutto il processo produttivo –, ma è controllato
dall’impresa stessa e non dai system integrator.
Altro aspetto importante emerso è dove l’azienda è padronale, spesso non si
vede un impegno del management a formalizzare i processi operativi. Dove
questo percorso è stato fatto, l’azienda è più pronta alla digitalizzazione.
Infine, l’analisi condotta da INAPP e Politecnico di Torino farebbe parlare di
evoluzione tecnologia, e non di rivoluzione, in quanto la tecnologia che
avrebbe il potenziale di impatto più alto sulle competenze, quindi l’AI, è ancora
poco adottata.
Correlazione tra investimenti in tecnologie e in formazione
Altro filone delle ricerche condotte ha riguardato la tipologia di investimenti
delle imprese, correlata con le attività di formazione professionale. Per
questo tema, la banca dati di riferimento è stata quella dell’indagine RIL
(Rilevazione Longitudinale su Imprese e Lavoro) del 2018, che ha interessato
imprese manifatturiere di medio e grandi dimensioni (tra 50 e 500 dipendenti),
operanti nelle regioni del Nord Italia.
Dall’analisi è emerso che nelle aziende in cui si investe nelle tecnologie 4.0
c’è una maggiore propensione a investire in formazione. Nello specifico,
queste aziende si concentrano sulla formazione tecnica e nella formazione
informatica tradizionale. Per quanto riguarda il metodo di formazione, quello
dell’affiancamento è tra le opzioni privilegiate da questo tipo di imprese.
In relazione alla tipologia di investimento, si nota che le aziende che investono
in robotica e automazione investono maggiormente in formazione tecnica e
informatica (tradizionale). Risultati simili sono emersi anche per le aziende
che investono in Internet of Things (IoT), mentre quelle che investono in Big
Data Analytics si concentrano maggiormente sulla formazione informatica.
Emerge quindi un rapporto di complementarietà tra gli investimenti in
tecnologie 4.0 e quelli in formazione. Interessante notare l’importanza ancora
data all’informatica tradizionale che fa emergere una situazione a “doppia
velocità”: le aziende si trovano, da un lato, ad aver bisogno di formare il
personale sotto un profilo più tradizionale e, dall’altro, hanno anche bisogno di
formazione specializzata.
Per quanto riguarda l’analisi qualitativa (emersa dalle riflessioni condotta nei
focus group), questa ha evidenziato che nelle imprese che digitalizzano,
l’insieme delle nuove tecnologie e della trasformazione di competenze
associate si trasformano in nuove complessità. Queste organizzazioni,
dunque, tendono a diventare “sistemi di sistemi”, come le hanno definite
alcuni partecipanti ai focus group.
“In queste imprese emerge il bisogno di un approccio sistemico alle
competenze, che vuol dire che la digitalizzazione porta all’interno di queste
aziende a un aumento della complessità poiché richiede un’integrazione tra
tecnologie e competenze molto sfidante rispetto a organizzazioni e imprese
meno tecnologicamente spinte”, spiega Tatiana Mazali, del Politecnico di
Torino.
A questa complessità spesso le aziende rispondono introducendo figure
specifiche, quali Chief Integration Officer o System Integrator, che ricercano
prevalentemente all’esterno dell’azienda. “Si tratta di persone che non solo
hanno elevate competenze tecnico-specialistiche, ma anche una funzione di
collante organizzativo e di trasferimento di competenze”, aggiunge.
Ma questo succede nelle grandi aziende, spiega la professoressa. Nelle PMI,
solitamente, questo ponte di congiunzione che l’innovazione richiede viene
affidato a persone altamente specializzate che arrivano nell’impresa spesso
per fare innovazione di prodotto o di processo e che poi sono chiamate a
portare l’innovazione alle persone.
Un ruolo per cui non bastano solo le competenze specifico-tecniche, ma
servono anche le competenze trasversali, le cosiddette soft skill. Queste
sono ormai considerate competenze di base e vengono richieste in tutti i
ruoli dell’impresa e in tutta la catena organizzativa. Si tratta, dunque, di
competenze non richieste soltanto all’individuo, ma devono caratterizzare
l’impresa nel suo insieme.
Ma come acquisirle? Anche qui, l’approccio delle PMI differisce da quello delle
grandi imprese: mentre nelle prime queste competenze vengono acquisite
“per osmosi” e sulla base dell’esperienza, nelle grandi imprese è il risultato
della formazione strutturata. Proprio per questo – e per la polifunzionalità e la
flessibilità dei ruoli all’interno delle PMI – spesso è più facile che nelle PMI
avvenga questa ibridazione di competenze rispetto che alla grande azienda,
dove c’è una maggiore separazione dei ruoli.
Per contro, la grande impresa ha il problema di gestire i grandi numeri. Per
quant riguarda la facilità di reperire alcune hard e soft skill, le imprese che
hanno partecipato ai focus group hanno segnalato che se da un lato si
iniziano a reperire più facilmente alcune competenze tecniche, trovare
persone con la giusta forma mentis risulta spesso difficile.
Tuttavia, va precisato che ci sono difficoltà di reperimento anche nelle hard
skill, soprattutto quelle necessarie all’analisi e nella gestione dei dati. I profili
associati, come Data Science, Data Engineer e Data Analyst, sono tra i più
difficili da trovare.
In questo contesto, le competenze digitali si posizionano come competenze
trasversali. Il digitale, infatti, agisce non come strumento, ma piuttosto come
una lingua comune all’interno della quale opera tutta l’impresa.
Come gli investimenti stimolano la domanda di lavoro
Per quanto riguarda il rapporto tra investimenti e domanda di lavoro, le
rilevazioni condotte (banca dati 2015-207) evidenziano che l’investimento in
almeno una tecnologia 4.0 si accompagna a un aumento della probabilità di
ricerca di una figura altamente specializzata (+4%) e ad un aumento della
probabilità che questo posto vacante sia relativo ad un profilo tecnico ed
esecutivo (+9%), mentre più contenuto è l’aumento della probabilità che
l’azienda ricerchi un profilo poco specializzato (+3%).
Analizzando la correlazione con le specifiche tecnologie, agli investimenti
in robotica non si associa la ricerca di profili a bassa specializzazione, mentre
aumenta il fabbisogno di persone ad alta specializzazione (+2,6% di
probabilità che l’impresa ricerchi queste figure), soprattutto in profili tecnici ed
esecutivi (+5%).
Una tendenza che non si rileva, invece, per gli investimenti in IoT e Big Data,
ai quali si associa un maggiore bisogno di profili apicali. “Questo potrebbe
significare che l’azienda che investe in queste tecnologie non riesce a formare
questi profili internamente”, spiega Valentina Ferri, ricercatrice dell’INAPP.
Emerge, dunque, una generale correlazione positiva tra investimenti in
tecnologie dell’Industria 4.0 e domanda di lavoro e in particolare con la
ricerca di profili specializzati e apicali. In prevalenza, queste aziende ricercano
profili tecnici, mentre si nota una debole richiesta di profili a bassa
specializzazione.
Evidenze che sono trainate principalmente da investimenti in robotica e
cyber security, ma che si notano anche in quelle aziende che investono in
IoT e Big Data Analytics. Contrariamente, gli investimenti in realtà virtuale e
aumentata sono ancora troppo esigui per influenzare la domanda di lavoro.
I risultati emersi da queste analisi portano a pensare che saranno proprio i
lavoratori meno qualificati a concentrare i maggiori sforzi dell’impresa per
quanto riguarda la formazione. Proprio perché a investimenti in tecnologie 4.0
si associa una maggiore domanda di specializzazione, saranno questi
lavoratori ad avere più bisogno di essere riqualificati.
Tuttavia, il fatto che le imprese ricerchino ancora esternamente queste
competenze può indicare che la formazione professionale potrebbe essere, in
alcuni casi, non sufficientemente adeguata a stimolare la domanda di nuovi
profili.
L’impatto delle tecnologie sulla competitività internazionale
Dall’analisi delle tecnologie su cui hanno puntato le imprese nel periodo
2015-2017 emerge una prevalenza di investimenti in sicurezza
informatica – che ha interessato il 22,8% di tutte le imprese italiane, mentre
per le altre voci (robotica, IoT, Big Data Analytics e realtà aumentata) si
notano differenze rispetto al settore di appartenenza, dimensione aziendale e
posizione geografica dell’impresa.
Nello specifico, gli investimenti in robotica, realtà aumentata e Big Data
crescono all’aumentare della dimensione dell’impresa, pur rimanendo
comunque limitati rispetto alla sicurezza informatica.
Investimenti che influenzano anche le performance delle imprese sui
mercati internazionali. Per questo ambito, il periodo di riferimento
considerato è andato dal 2010 al 2018. I dati hanno mostrato che le imprese
che hanno investito in almeno una delle tecnologie 4.0 hanno una maggiore
competitività sui mercati internazionali.
A questo proposito, i dati disponibili per il periodo 2015-2017 mostrano un
aumento della quota di fatturato derivante dal commercio estero dell’1,5% (per
tutte le imprese che hanno investito, non solo per la manifattura), che sale al
+13% per le grandi aziende manifatturiere del nord, mentre per le aziende con
un numero di dipendenti inferiore a 250 non si sono rilevate variazioni.
Significativo è stato l’impatto della robotica, che ha fatto registrare un
aumento del fatturato derivante dal commercio internazionale del 3,3%
generalizzato, che sale al 10% nelle grandi aziende manifatturiere del nord,
mentre quelle al di sotto di 250 dipendenti non hanno registrato variazioni. Per
gli investimenti in sicurezza informatica, invece, l’aumento è stato contenuto
all’1% (dato riferito a tutto il campione).
L’efficacia delle politiche industriali nello stimolare gli
investimenti
Altro focus di questo ampio lavoro di analisi che ha messo a confronto dati
provenienti da diverse rilevazioni è rivolto a delle riflessioni sugli incentivi
messi a disposizione delle imprese e su come questi abbiano influenzato le
scelte delle aziende. Si parla quindi di strumenti contenuti nel Piano
Transizione 4.0, ma non solo: tra quelli presi in esame rientrano la Nuova
Sabatini, il Patent Box, il super e iper-ammortamento e il credito d’imposta per
ricerca e sviluppo.
Un focus voluto per stimolare una discussione sulle politiche future relative
all’industria, ma anche sulle politiche del lavoro. “Siamo piuttosto persuasi
che la politica del lavoro passi attraverso la politica delle imprese”, commenta
Andrea Ricci, ricercatore dell’INAPP.
I dati relativi al 2017 mostrano l’impatto delle agevolazioni sugli
investimenti: in quell’anno, circa il 30% delle aziende ha investito e circa il
10,4% ha usufruito di investimenti. Tra queste, il 64% è ricorso al
super-ammortamento, il 17% agli incentivi della Nuova Sabatini, il 18% al
credito d’imposta per ricerca e sviluppo e il 12% all’imper-ammortamento,
mentre misure come il Patent Box e Start-up PMI hanno avuto una diffusione
marginale.
L’analisi dei dati ha mostrato, inoltre, che la propensione ad investire
sfruttando un incentivo varia con la dimensione dell’impresa, con le imprese
più grandi e le imprese manifatturiere del nord che sono state più propense.
L’analisi dell’efficacia di questi incentivi – cioè la loro efficacia nello stimolare
investimenti che in loro assenza non sarebbero avvenuti – mostra invece una
situazione ribaltata: l’efficacia degli incentivi è stata massima per le piccole
imprese, mentre scende per quelle imprese che per dimensioni o per
posizione geografica sono più propense ad investire anche senza
agevolazioni (quindi grandi aziende del Nord-Est e del settore dei servizi).
Il dato generale mostra che “solo” il 38% delle imprese italiane non avrebbe
investito in assenza di strumenti agevolativi. “Questo ci suggerisce che una
politica industriale basata su incentivi fiscali con deboli criteri di selettività non
è una leva sufficiente per superare le barriere strutturali alla transizione
tecnologica”, spiega Ricci.
“L’efficacia di queste politiche può essere migliorata entrando nel ‘black box’
dei modelli culturali, evolutivi e comportamentali del sistema imprenditoriale”,
aggiunge.
Industria 4.0, alle imprese italiane manca ancora il salto
culturale
“Il sistema produttivo italiano sta interpretando l’Industria 4.0 più come
un’evoluzione di quella che è stata la terza rivoluzione industriale, piuttosto
che un vero cambio di paradigma. Questo è un effettivo punto di debolezza
del nostro sistema, che non si riscontra in altri Paesi, come ad esempio la
Germania”, commenta Andrea Bianchi, Segretario Generale, Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali.
Non si sarebbe fatto, dunque, quel cambio di paradigma, quel salto culturale
di cui c’è bisogno per sfruttare davvero le potenzialità dell’Industria 4.0 e delle
tecnologie che la caratterizzano. “Lo si evince dalle evidenze di queste
ricerche, che mostrano come le nostre aziende ancora non utilizzino i dati
come fattore di competitività”, aggiunge.
Dalle evidenze messe in risalto dalle diverse indagini presentate, sostiene
Bianchi, si possono ricavare diverse considerazioni: in primo luogo, gli
incentivi hanno stimolato gli investimenti in macchinari, ma ora occorre capire
come trasformare la leadership italiana nel settore della produzione delle
macchine in un’ottica di digitalizzazione, anche per competere con l’industria
tedesca, dove questo passaggio è stato ampiamente sostenuto dal governo.
Questo richiede necessariamente un cambiamento nei ruoli apicali, proprio
perché è sulla mentalità dell’azienda che occorre lavorare. “In questo ambito
possiamo concentrarsi su diversi aspetti, come sulla necessità di investire non
solo in formazione, ma anche in informazione per fare capire ai ragazzi, ma
soprattutto ai loro genitori, il valore di certi percorsi formativi”, aggiunge
Bianchi.
Gli interventi sulla formazione, inoltre, cruciali per promuovere questo salto
culturale, devono seguire due filoni distinti, ma congiunti: da un lato, sostiene
il Segretario, occorre intervenire sulle figure professionali – che richiede uno
sforzo di tutto il sistema formativo –, dall’altro si devono intensificare gli sforzi
sulla formazione tecnica e sul ruolo che gli ITS hanno la potenzialità di
giocare.
Ma questo non basta, perché se da un lato bisogna pensare ai lavoratori del
domani, dall’altro ci sono tanti lavoratori che vanno riqualificati. Dunque, a
questi investimenti in formazione devono accompagnarsi quelli in formazione
continua.
Vi è poi il discorso dell’efficacia delle agevolazioni a sostegno degli
investimenti, poiché a cinque anni dall’introduzione del Piano Transizione
4.0, l’analisi della loro efficacia ne evidenzia le luci, ma anche qualche ombra.
“Il vero salto di qualità da compiere nei prossimi anni sarà mettere insieme la
politica industriale e la politica del lavoro, creando quindi una sinergia e
superando l’accezione di politiche di salvataggio e andare verso politiche che
siano un motore di cambiamento e di innovazione”, spiega Bianchi.
Marco Calabrò, Dirigente del Mise (Direzione Generale Politiche Industriali,
Innovazione e PMI), ricorda invece che la poca selettività degli strumenti di
agevolazione era stata voluta per fornire uno shock all’intero sistema, che
veniva da anni in cui gli investimenti erano bloccati.
“Ora che questa fase si è superata, è bene interrogarsi sulla linea che queste
politiche dovranno seguire in futuro – spiega il Dirigente – Non mi sorprende
che il Patent Box sia uno strumento poco utilizzato, perché si rivolge a una
platea più ristretta. Quello che mi sorprende è il dato relativo al credito
d’imposta in ricerca e sviluppo, che ha una platea simile”.
Da questo tipo di ragionamenti si può e si deve partire, conclude il Dirigente,
per disegnare le politiche industriali dei prossimi anni.

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