[L’analisi] L’Italia del carbone: ecco dove si
trova e quanto sarà difficile ricominciare
La guerra scatenata dalla Russia in Ucraina sta portando con sé diverse
incognite sul problema dell’energia. Secondo quanto annunciato dal
presidente del Consiglio, Mario Draghi, l’Italia potrebbe fare ricorso maggiore
alle sette centrali a carbone rimaste. Garantiscono appena il 6,34% del
fabbisogno nazionale. Si tratta della centrale “Eugenio Montale” di
Vallegrande (La Spezia), “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), Torrevaldaliga
Nord (Civitavecchia) “Federico II” di Brindisi e “Grazia Deledda” di Portoscuso
(Sud Sardegna), Monfalcone (Gorizia) Fiume Santo (Sassari). Le prime
cinque appartengono all’Enel, quella di Monfalcone alla A2A e quella di Fiume
Santo, al gruppo energetico ceco Eph.
Cambio di programmi sulla transizione energetica
Nei progetti iniziali era previsto il loro spegnimento entro il 2025 o la
riconversione. Ora le cose sono cambiate. Il piano d’emergenza messo a
punto nei mesi scorsi per fronteggiare il caro bollette prevede che Brindisi e
Civitavecchia aumentino la produzione. La Spezia sarà riaccesa e un ulteriore
contributo potrebbe arrivare, con tempi più lunghi, da altri impianti che sono
fermi. Verrà così stabilizzato un programma che già a dicembre, seppure per
pochi giorni aveva portato a rimettere in funzione La Spezia e Monfalcone.
L’annuncio di Draghi ha fatto esplodere le consuete proteste dei movimenti
ecologisti e da qualche sindaco (come quello della Spezia). Eppure, è stata la
mancata diversificazione delle forniture la causa principale della crisi attuale.
Quello che è successo agli inizi di dicembre alla Spezia e a Monfalcone, con i
due impianti a carbone rimessi in funzione per pochi giorni, rende bene l’idea
su quanto il carbone risulti determinante nei momenti più difficili.
Due mesi fa è stato necessario richiamarlo in servizio non solo per il rialzo
imponente del prezzo del gas, ma anche per il blocco di quattro centrali
nucleari in Francia. Poi, dopo appena tre settimane, lo stop. Proprio la
modalità on/off ha portato Draghi a fare una scelta di realismo rispetto alla
narrazione green che risolve tutto e subito. Senza per questo smentire il
Green deal europeo che guarda al 2030. L’Italia resta impegnata a portare la
quota di energia prodotta dalle rinnovabili dal 17% al 30%, in linea con
l’obiettivo europeo del 32%.
Le rinnovabili
L’uscita dal carbone resta sempre fissata al 2025. Purtroppo, non sarà un
percorso lineare. Vale, soprattutto, proprio per le rinnovabili. Gli ultimi dati
pubblicati dal Gestore dei servizi energetici sul mix dell’energia elettrica
vedono le fonti di energia rinnovabili al primo posto, con una quota che dal
41,75% del 2019 è passata al 45,04 per cento. Circa la metà è rappresentata
dall’energia idroelettrica di cui l’Italia, grazie all’estensione dell’arco alpino, è il
maggior produttore europeo. Poi viene il gas (42,28%). che proviene per oltre
il 95% dalle importazioni visto che la produzione nazionale copre appena il 4%
del fabbisogno nazionale.
Seguono il carbone al 6,34% e il nucleare (in gran parte francese) al 3,22 per
cento. La spinta delle rinnovabili e il contributo offerto dal gas, però, non sono
sufficienti a renderci indipendenti dal carbone. È vero che la produzione
nazionale è molto bassa (è rimasta una sola miniera in Sardegna che tuttavia
è stata chiusa per 25 anni fino al 1997) ma almeno non pone problemi di
sicurezza nelle forniture.
La questione del gas
Il gas presenta, invece, criticità di lunga data, con una quota russa che negli
ultimi dieci anni è salita dal 27% al 45 per cento. Di gas ne produciamo
sempre meno (3,3 miliardi di metri cubi l’anno scorso a fronte dei 17 miliardi di
metri cubi di vent’anni fa) e il contributo che può arrivare dal Gnl americano, il
gas naturale liquefatto, deve scontare una rete di rigassificatori che di fatto
non c’è, essendo pochi, vecchi e anche loro osteggiati. «Il rigassificatore a
San Ferdinando è un rischio per i cittadini», tuonavano i 5 Stelle nel 2013,
marcando una delle prime battaglie ambientaliste contro quel gas che nove
anni dopo ci permette ancora di illuminare le case e tenere attive le
produzioni.
Eppure, l’avversione al gas è rimasta sempre la stessa se appena due giorni
fa gli stessi grillini hanno festeggiato lo stop della riconversione della centrale
a carbone di Civitavecchia in un impianto a gas. Il carbone costa, con le
emissioni di anidride carbonica che hanno valori di spesa superiori, e di tanto,
rispetto al petrolio e al gas. Inquina perché rilascia mercurio e arsenico
nell’ambiente. Non va bene neppure il gas. Ma la crisi e ora la guerra
impongono il salto di parametro.
fonte: RIPARTE L’ITALIA