IMPRESE – Industria 5.0, cos’è e quale sarà l’impatto sulle aziende

Industria 5.0, cos’è e quale sarà l’impatto
sulle aziende


di Michelle Crisantemi
Proteggere, preparare e trasformare: è questa la triplice sfida a cui l’industria
europea deve affrontare e che ha portato la Commissione europea a
delineare i contorni di una nuova dimensione industriale, sociale e politica,
che prende il nome di Industria 5.0.
Un termine utilizzato per indicare una nuova fase evolutiva dell’industria
basata su tre pilastri: umano-centrismo, resilienza e sostenibilità.
In questa visione, l’attenzione passa dalle tecnologie e dai cambiamenti che
queste possono abilitare sul fronte dei processi e dei modelli di business a
questi tre valori che devono alimentare, a tutti i livelli, gli sforzi delle imprese.
Capire quali sono i cambiamenti che hanno portato l’industria a questo punto
e come si declinano (concretamente), questi valori, è importante per
prepararsi all’impatto che l’Industria 5.0 avrà all’interno e all’esterno
delle fabbriche.
Infatti, indipendentemente da tutte le considerazioni e le precisazioni che
devono essere fatte – non c’è ancora, ad oggi, un consenso della comunità
accademica e industriale intorno all’appropriatezza del termine – i pilastri di
Industria 5.0 indicano un cambiamento più profondo che abbraccia tutta la
società e il suo funzionamento.
Così come avvenuto per la digitalizzazione e i paradigmi dell’Industria 4.0,
essere pronti di fronte a questa sfida si trasformerà ben presto da leva di
competitività a necessità per la sopravvivenza del business.
Quando nasce l’Industria 5.0
Se per la prima, la seconda e la terza Rivoluzione Industriale è piuttosto
semplice individuare un’innovazione (e quindi anche una data o un arco
temporale) che ha innescato il cambiamento e per Industria 4.0 si può
individuare una data relativa a quando si è iniziato a utilizzare il termine, per
Industria 5.0 il discorso è ben diverso.
Anche se il termine non è stato coniato in quell’occasione – si possono infatti
rintracciare articoli sul tema già nel 2016 –, il termine “Industria 5.0” si è
iniziato a diffondere nel linguaggio di aziende e media dopo la pubblicazione
del policy briefing della Commissione europea del gennaio 2021 che ha
voluto delineare proprio i pilastri e i paradigmi di quella che viene da molti
considerata una nuova fase evolutiva dell’industria.
Di Industria 5.0 si parlava, tuttavia, già da tempo, come sottolinea lo stesso
documento della Commissione.
Il termine, come abbiamo spiegato in questo articolo, è stato anticipato da
quello di “Società 5.0” emerso in Giappone già a metà dello scorso decennio,
ad indicare “una società incentrata sull’uomo che bilancia l’avanzamento
economico con la risoluzione dei problemi sociali attraverso un sistema che
integra fortemente il cyberspazio e lo spazio fisico”.
Con società 5.0 in Giappone si indica quindi non solo una nuovo paradigma
produttivo, ma una trasformazione della società tutta, fin dai principi che
animano la sua economia e la sua politica, a tracciare una linea di continuità
(e, allo stesso tempo, discontinuità) con quelle che sono state le precedenti
evoluzioni sociali:
● Società 1.0, anche chiamata “la società della caccia”
● Società 2.0, quella dell’agricoltura
● Società 3.0, la società industriale
● Società 4.0, la società dell’informazione
Società 5.0 designa quindi un futuro incentrato intorno a un modello “human
technology oriented” che rimette la tecnologia al servizio della persona.
Industria 5.0: le differenze con industria 4.0
L’Industria 5.0 poggia quindi su un modello di società e industria incentrato
intorno all’uomo, che vuol dire costruire su quanto fatto già da Industria 4.0,
far leva sugli oggetti connessi e le fabbriche intelligenti per alimentare tutti i
vantaggi in termini di efficienza e flessibilità di cui si è tanto parlato in questi
anni, spostando però il focus dalle tecnologie all’uomo.
E per farlo, c’era davvero bisogno di utilizzare un diverso framework? Un
secondo policy briefieng della Commissione sul tema (pubblicato nel 2022)
spiega perché “Industria 4.0 non è il framework adatto a raggiungere gli
obiettivi europei”.
Nell’ultimo decennio, l’Europa ha gradualmente intensificato il suo impegno per la
trasformazione industriale, soprattutto lavorando alla transizione verso la cosiddetta
industria 4.0, un paradigma essenzialmente tecnologico, incentrato sull’emergere di
oggetti cyber-fisici, che promette una maggiore efficienza grazie alla connettività digitale
e all’intelligenza artificiale. Tuttavia, il paradigma dell’Industria 4.0, così come attualmente
concepito, non è adatto allo scopo in un contesto di crisi climatica e di emergenza
planetaria, né affronta le profonde tensioni sociali. Al contrario, è strutturalmente allineato
con l’ottimizzazione dei modelli di business e del pensiero economico che sono alla base
delle minacce che stiamo affrontando. L’attuale economia digitale è un modello
“winner-takes-all” che crea monopolio tecnologico e una gigantesca disuguaglianza di
ricchezza.
L’Industria 4.0 manca quindi di “quelle dimensioni chiave per la progettazione
e le prestazioni che saranno indispensabili per rendere possibile una
trasformazione sistemica e per assicurare il necessario disaccoppiamento
dell’uso delle risorse e dei materiali dagli impatti negativi per l’ambiente, il
clima e la società”.
E queste dimensioni, spiegano gli autori del briefing, sono:
● caratteristiche rigenerative della trasformazione industriale, in
modo da abbracciare l’economia circolare e i cicli di retroazione positiva
non come un ripensamento, ma come un pilastro fondamentale della
progettazione di intere catene del valore
● una dimensione intrinsecamente sociale, che richiede attenzione al
benessere dei lavoratori, alla necessità di inclusione sociale e
all’adozione di tecnologie che non sostituiscano, ma piuttosto integrino,
quando possibile, le capacità umane
● una dimensione ambientale obbligatoria, che porti a promuovere
trasformazioni che eliminino l’uso di combustibili fossili, promuovano
l’efficienza energetica, attingano a soluzioni basate sulla natura,
rigenerino i pozzi di carbonio, ripristinino la biodiversità e creino nuovi
modi di prosperare in una rispettosa interdipendenza con i sistemi
naturali
Industria 5.0: che cosa significa human centric
In questa visione della società, pertanto, uno dei valori che animano la
produzione deve essere proprio il benessere del lavoratore.
Si tratta di un tema non nuovo per l’industria: questo ruolo di “farsi
promotrice di benessere e inclusione sociale”, infatti, le è stato attribuito
più volte in diversi accordi internazionali in materia di ambiente e sostenibilità,
come nella dichiarazione di Lima (2013) e negli obiettivi di sviluppo sostenibile
dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, formulata nel 2015.
Un tema che, indubbiamente, ha acquisito maggiore rilevanza negli ultimi anni
in seguito a una sempre più progressiva digitalizzazione – e il cambiamento,
quindi, dei modelli lavorativi “tradizionali” – e un’evoluzione dei valori sociali
accelerati anche da eventi di shock (come quello della pandemia) che hanno
spinto le persone a vedere la dimensione lavorativa sotto un’ottica diversa.
In questo contesto, il lavoro non serve unicamente a generare profitto, ma
diventa un fattore essenziale della realizzazione di una persona. Ciò vuol
dire, ad esempio, che se in passato si accettava di lavorare per un’azienda di
cui non si condividevano i valori o non si apprezzava la cultura, adesso queste
dimensioni diventano cruciali nella scelta dell’organizzazione per cui lavorare.
Un’evoluzione culturale, in primis, figlia di una generazione che ha masticato i
temi della sostenibilità fin dalla scuola dell’infanzia e che ora, raggiunta l’età
lavorativa, non ne vuole sapere di accettare i vecchi paradigmi produttivi,
lavorativi, economici e sociali.
Ma riportiamo il discorso all’interno dell’industria. Come si declina, a livello
produttivo, questo umano-centrismo? E che ruolo ha l’uomo in un contesto
sempre più automatizzato?
A spiegarlo, già nel 2015, è un articolo di Esben H. Østergaard, fondatore
dell’azienda robotica Universal Robots, che scrive:
Nei processi produttivi, l’automazione può essere sfruttata al massimo delle sue
potenzialità solo quando c’è anche una scintilla di creatività umana che influenza i
processi. Da sola, una produzione automatizzata con robot industriali tradizionali farà
solo ciò che gli viene detto, spesso solo dopo lunghi e faticosi sforzi di programmazione.
I robot collaborativi, invece, lavorano in sincronia con i dipendenti umani. Queste due
forze si completano a vicenda e prosperano insieme, poiché l’uomo può aggiungere il
cosiddetto “qualcosa di speciale”, mentre il robot elabora ulteriormente il prodotto o lo
prepara per l’attenzione umana. In questo modo, il dipendente viene responsabilizzato e
utilizza il cobot come uno strumento multifunzionale: un cacciavite, un dispositivo di
imballaggio, un pallettizzatore, ecc. Il robot non è destinato a sostituire la forza lavoro
umana, ma ad assumere compiti faticosi o addirittura pericolosi. In questo modo, i
dipendenti umani possono usare la loro creatività per dedicarsi a progetti più complessi.
Industria 5.0: la sfida socio-ambientale
La sostenibilità è, come abbiamo già spiegato, uno dei pilastri di Industria
5.0. La sostenibilità non è qualcosa che ha a che fare soltanto con l’ambiente,
ma anche con la società e con l’economia: è sostenibile un’economia che
garantisce alle future generazioni lo stesso benessere di quelle passate, così
come è sostenibile una società che promuove il benessere e l’inclusione di
tutti i suoi componenti.
Per capire come si declina, concretamente, questa sfida, si può fare
riferimento agli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) dell’Agenda 2030
più inerenti alla dimensione sociale, che sono:
● sconfiggere la povertà (SDG 1)
● sconfiggere la fame (SDG 2)
● salute e benessere (SDG 3)
● istruzione di qualità (SDG 4)
● parità di genere (SDG 5)
● acqua pulita e servizi igienico-sanitari (SDG 6)
● ridurre la disuguaglianze (SDG 10)
● pace, giustizia e istituzioni solide (SDG 16)
Sul fronte ambientale la sfida non potrebbe essere più grande, urgente e al
tempo stesso sottovalutata: nonostante i continui allarmi lanciati dal mondo
scientifico riguardo i rischi associati al cambiamento climatico e gli sforzi
messi in atto nel contesto delle politiche internazionali – che, tuttavia, si sono
rilevati troppo eterogenei e fievoli – sembriamo ormai destinati a fallire
l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C.
E gli effetti sono già qui: nel 2022 in Italia gli eventi cimatici estremi sono
aumentati del 55%. Siccità, grandinate, trombe d’aria e alluvioni sono stati i
fenomeni che hanno fatto segnalare l’incremento più significativo: in tutto sono
stati 310 e hanno provocato 29 morti, senza contare i danni economici.
Tenendo conto unicamente della siccità che ha colpito l’Italia la scorsa
estate (e che ancora non si è risolta), la Coldiretti stima che sia costata
all’agricoltura italiana danni per 6 miliardi di euro, pari al 10% della
produzione agroalimentare nazionale, a cui vanno aggiunti gli effetti
catastrofici legata alla mancanza d’acqua, dal dilagare degli incendi allo
scioglimento dei ghiacciai.
Eppure la rotta per evitare questa catastrofe era stata tracciata da tempo:
anche tralasciando che di utilizzo sostenibile delle risorse si parlava già ai
tempi di Platone – abbiamo ripercorso brevemente alcune tappe evolutive del
concetto di sostenibilità e delle sue caratteristiche –, già a fine degli anni
Ottanta l’economista Herman Daly pubblicò le tre regole per una società
sostenibile:
● un uso sostenibile delle risorse rinnovabili. Questo significa che il
ritmo di utilizzo dovrebbe essere inferiore alla velocità con cui le risorse
sono in grado di rigenerarsi
● uso sostenibile delle risorse non rinnovabili, vale a dire che il loro
esaurimento deve essere compensato dal passaggio a risorse
rinnovabili
● un tasso di emissione sostenibile per l’inquinamento e i rifiuti.
Secondo questo principio, il ritmo della produzione di emissioni e di
rifiuti non dovrebbe essere più veloce del ritmo al quale i sistemi naturali
possono assorbirli, riciclarli o renderli innocui
Una nuova visione per l’industria: verso l’Industria 5.0
Il documento della Commissione datato 2022 approfondisce i temi trattati nel
primo policy briefing e delinea, nel dettaglio, tutti gli elementi che andranno
a costituire l’Industria 5.0, vale a dire:
● responsabilità a livello di catena di fornitura e di ecosistema produttivo
● un’economia rigenerativa e circolare “by design”
● autosufficienza, adattabilità e riduzione della fragilità
● decentralizzazione per raggiungere sostenibilità e resilienza
● digitalizzare con uno scopo, al fine di vivere in armonia con i limiti del
pianeta
● misurare tutto ciò che è importante: metriche rigenerative e quadro
normativo
Vediamo ora come si mettono a terra, nella visione della Commissione,
queste aree di intervento.
Responsabilità delle catene di fornitura e dell’ecosistema
produttivo
Il cammino verso l’industria 5.0 richiede, innanzitutto, un deciso
allontanamento dai modelli di capitalismo neoliberista, incentrati sulla
produzione per il profitto e sulla “supremazia degli azionisti”, a favore di una
visione più equilibrata del valore nel tempo e di una comprensione polivalente
del capitale umano e naturale, oltre che finanziario.
Questo cambiamento implica molto più della due diligence per le catene di
approvvigionamento, ma una comprensione del de-risking attraverso la
costruzione della resilienza.
Costruire la resilienza lungo tutta la catena del valore richiede un approccio
basato su persone-pianeta-prosperità che si concentri sulle leve a breve
termine e sulla pianificazione a lungo termine piuttosto che sulla ricerca del
profitto a breve termine.
Economia rigenerativa e circolare “by design”
Gli approcci rigenerativi e di economia circolare forniscono un quadro di
riferimento per le soluzioni di sistema e soprattutto per la trasformazione
sistemica, al fine di rendere sostenibili le attività di base e i modelli industriali.
Questo è il fulcro di un approccio all’Industria 5.0 e riunisce tre principi chiave
dei sistemi, ognuno dei quali è guidato da un focus sul design, ovvero:
● progettare per eliminare gli sprechi e l’inquinamento
● mantenere i prodotti e i materiali in uso e in circolazione a fini produttivi
● rigenerare i sistemi naturali e migliorare i pozzi di assorbimento del
carbonio
Questo modello di industria, spiega la Commissione, offre un’alternativa più
distribuita, diversa e inclusiva rispetto ai paradigmi esistenti.
E per fare ciò, occorre che la trasformazione avvenga seguendo uno scopo
chiaro, mirato a consentire la transizione verso percorsi economici circolari,
intersettoriali, rigenerativi e rilevanti per l’industria.
“Ciò significa andare decisamente oltre i paradigmi dell’Industria 4.0 che
incoraggiano un’attività economica estrattiva e di consumo abilitata dalla
tecnologia digitale, che non porta ad altro che a un’accelerazione degli impatti
negativi sul clima e della perdita di ecosistemi”, spiegano gli analisti.
Autosufficienza, adattabilità e riduzione della fragilità
La pandemia, così come le crisi economiche che si sono succedute negli
ultimi vent’anni, hanno mostrato quanto impreparata (e poco resiliente)
fosse l’economia europea.
Nello specifico, i recenti avvenimenti (pandemia e conflitto russo-ucraino)
hanno evidenziato quanto la dipendenza dell’Unione da alcuni Paesi in
ambito di terre rare, componenti indispensabili per filiere strategiche (come i
microchip) ed energia (si pensi, ad esempio, al gas russo) mettano a serio
rischio la sovranità, l’indipendenza e la stabilità dell’UE.
Per questo, le politiche volte a promuovere il cammino verso l’Industria
5.0 devono necessariamente passare per strategie volte a ridurre queste
dipendenze.
La Commissione ha già avviato diversi programmi in merito, come la strategia
REPowerEU e la nuova strategia industriale europea.
Decentralizzare per raggiungere resilienza e sostenibilità
Al punto precedente si ricollega l’impegno dell’UE a decentralizzare le
catene di fornitura che, spiega il documento della Commissione, significa
“individuare e ridurre i gap tra la produzione e il consumo di cibo”.
Un impegno che non deve estenersi unicamente alla produzione e al
consumo di beni fisici, ma che deve riguardare anche il mondo digitale. Come
si spiega nel documento:
Sebbene il Web 2.0 abbia dato l’opportunità alle piattaforme tecnologiche di catturare il
valore generato dai creatori di contenuti e dai dati degli utenti, il Web 3.0 promette di
costruire una nuova Internet basata sulla decentralizzazione e sulla sovranità degli utenti,
rispecchiando e rendendo possibile l’evoluzione del lavoro e dei turni di lavoro
Digitalizzare con uno scopo, al fine di vivere in armonia con i
limiti del pianeta
“L’industria europea sarà digitalizzata o cesserà di esistere”, spiegano i gli
analisti della Commissione, a sottolineare il legame tra il digitale e la
sostenibilità (intesa nel senso più completo del termine).
Tuttavia, nonostante i tanti vantaggi della digitalizzazione, che partono
dall’industria ma che si estendono a quasi ogni ambito della vita di ognuno di
noi, vi sono anche rischi da bilanciare e fattori da mitigare affinché la
digitalizzazione si sviluppi lungo dimensioni positivi. Rischi che gli analisti
della Commissione riconducono a:
● la continua concentrazione del potere economico, l’accumulo di
valore (e di dati) nelle mani di poche aziende tecnologiche (non
europee)
● la trasformazione mainstream e la rapida crescita dei modelli di
business online che hanno progressivamente portato a
preoccupazioni senza precedenti in termini di sostenibilità economica,
sociale e ambientale
● la centralizzazione e la platformizzazione dei modelli di business
digitali, che ha portato molte aziende dell’economia reale in una
situazione di dipendenza, molti lavoratori in una situazione di precarietà,
molti cittadini in una situazione di sorveglianza privata o pubblica
● l’aumento delle emissioni generate dalle tecnologie digitali, con
Internet che è diventato la più grande macchina alimentata a
combustibili fossili del mondo, in grado di generare il 14% delle
emissioni globali entro il 2040
● la crescente domanda di beni e di una disponibilità degli stessi
sempre più immediata, spinta dalle piattaforme digitali basate sulla
monetizzazione dei dati e i modelli di business alimentati dalle entrate
pubblicitarie
E se è vero che l’industria europea non può sopravvivere senza digitalizzarsi,
è altrettanto vero che questi fattori stanno spingendo la società e l’industria
verso una direzione che allontana dagli obiettivi prefissati dall’UE. Per questo,
gli analisti della Commissione avvertono:
Senza un chiaro riorientamento e orientamento della trasformazione digitale per
consentire un’economia meno dispendiosa, più efficiente dal punto di vista energetico,
più rigenerativa, distribuita, diversificata e inclusiva – più umana, rispettosa del
benessere e del senso di sé delle persone – l’affidamento all’economia digitale è un
pilastro molto traballante della “transizione gemella”. La digitalizzazione deve passare da
un “internet delle cose” a un “digitale per le persone-pianeta-prosperità”
Misurare tutto ciò che conta: metriche rigenerative e quadro
normativo
Una nuova visione di industria richiede, in primis, un nuovo quadro
regolatorio e metriche specifiche per misurare i progressi fatti.
Se l’obiettivo è allontanarsi da un’economia che persegue il profitto nel breve
termine, allora anche le metriche devono rispecchiare questo nuovo focus.
Le metriche utilizzate, in questo nuovo contesto, devono quindi essere volte
ad analizzare diversi fattori, come: il “rendimento dei beni materiali”; il
disaccoppiamento dei materiali; il “rendimento dell’energia investita”; il
“rendimento dei beni naturali”; la valorizzazione del capitale umano e naturale.
Le tecnologie di Industria 5.0
Cambiamenti non solo tecnologici, quindi, ma che sono abilitati da quelle
tecnologie che (in gran parte) sono state protagoniste di Industria 4.0.
Più nello specifico, le sei tecnologie chiave di Industria 5.0 sono:
● interazione uomo-macchina personalizzata
● tecnologie ispirate alla natura e materiali intelligenti
● gemelli digitali e simulazione
● tecnologie per la trasmissione, l’immagazzinamento e l’analisi dei dati
● intelligenza artificiale
● tecnologie per l’efficienza energetica, le energie rinnovabili, lo
stoccaggio dell’energia e l’autonomia
L’impatto di Industria 5.0 sui mercati
Così come i cambiamenti che hanno portato a parlare di Industria 5.0 non
restano limitati all’interno dei confini industriali, lo stesso si può dire dei suoi
effetti.
Come abbiamo visto nell’analisi del documento della Commissione, Industria
5.0 indica, oltre a un diverso concetto di produzione, un cambiamento nei
modelli economici, sociali, lavorativi e molto altro.
E, allo stesso modo, così come tutti gli stakeholder devono farsi agenti e
promotori del cambiamento, gli stessi sono e saranno soggetti agli impatti di
questi nuovi paradigmi sui mercati.
Prendiamo come esempio un’azienda manifatturiera, i possibili impatti di
Industria 5.0 si potrebbero rintracciare in:
● l’impegno a redigere il bilancio di sostenibilità (che interessa circa
50.000 imprese in tutta l’UE)
● l’esclusione o l’accesso facilitato a opportunità di finanziamento in
base ai punteggi e i criteri ESG dell’azienda
● la brand reputation. Sono sempre di più, infatti, i consumatori che
basano le proprie scelte di acquisto sulla sostenibilità delle aziende e
dei prodotti che vendono
● la capacità di attrarre e trattenere la forza lavoro
● la capacità di ottimizzare i consumi e l’utilizzo delle risorse
necessarie alla produzione, strategica per tutelare i margini di profitto
● la capacità di creare business model innovativi basati sull’economia
circolare e rigenerativa
Da questa lista, di certo non esaustiva, si può capire come sposare i valori e i
pilastri di Industria 5.0 sia strategico per la competitività delle organizzazioni.
Tornando a una delle frasi citate dal documento della Commissione, sarebbe
forse più corretto dire “l’industria europea sarà digitalizzata e sostenibile o si
estinguerà”.
fonte: INNOVATION POST

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