Il digitale per costruire un’economia resiliente: cosa serve per un cambiamento strutturale

Il digitale per costruire un’economia
resiliente: cosa serve per un cambiamento
strutturale

Il Rapporto Annuale 2021 dell’Istat fornisce ottimi spunti di riflessione
per le politiche pubbliche del futuro prossimo e indica il PNRR come
pacchetto su cui impostare un percorso fatto di produttività, ricerca e
investimenti. Ma il cambiamento deve coinvolgere tutti i settori e le
procedure. Vediamo come
La presentazione del Rapporto Annuale 2021 – La Situazione del Paese
elaborato dall’Istat offre diversi spunti di analisi per quanto riguarda il presente
della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica in Italia. Vengono
individuati alcuni dei fattori che frenano la crescita della produttività e della
competitività, soprattutto a livello internazionale, tra cui proprio il gap che le
nostre aziende scontano in termini di digitalizzazione dei processi.
Inoltre, la grande conferma: chi è più digitale, meglio riesce a resistere alle
crisi economiche. Il 96% delle imprese digitalmente mature non ha subito o
programmato ridimensionamenti delle proprie attività durante la pandemia e i
lockdown. Questo deve essere un segnale per il futuro e anche per le politiche
che il governo dovrà portare avanti con i fondi europei.
Nell’ultima decade il tema delle tecnologie digitali ha occupato il dibattito
pubblico, dove si è più volte sottolineata l’importanza di colmare il gap che le
imprese italiane scontano con i competitor internazionali. Ma è proprio
nell’anno del Covid-19 che è emerso il loro ruolo fondamentale nell’assicurare
la prosecuzione delle attività produttive e il mantenimento dei livelli essenziali
dei servizi pubblici.
I trend emergenti
Quali sono i trend emergenti?
La misurazione della digitalizzazione da parte dell’Istat avviene principalmente
attraverso tre parametri:
● livelli di formazione ICT all’interno delle imprese,
● diffusione delle principali tecnologie,
● utilizzo dell’e-commerce.
Competenze digitali e formazione
Per quanto riguarda la prima voce si conferma quanto l’indice DESI continua a
illustrare da tempo a questa parte. Le competenze digitali non sono il punto di
forza del tessuto produttivo italiano e su questo aspetto gli effetti dei vari piani
strategici (tra cui Industria 4.0) non sembrano ancora essersi palesati nella
misura prospettata. Un nuovo problema è però sorto durante il lockdown. È
crollata l’incidenza di imprese che ha svolto formazione ICT (pari al 15 per
cento in Italia e al 20 per cento nell’Ue), con un forte calo rispetto all’anno
precedente dove la quota aveva superato i 18 punti percentuali raggiungendo
i massimi dall’inizio delle rilevazioni di questo parametro. Le conseguenze
potrebbero essere piuttosto significative per un paese come l’Italia che già si
trovava in posizione di svantaggio e in cui il lavoro qualificato ICT non
primeggia rispetto alle altre tipologie.
Diffusione delle tecnologie
Analizzando la diffusione delle tecnologie i numeri sono disomogenei tra di
loro, ma migliorano il posizionamento italiano. Addirittura vi sono notizie
positive per quanto riguarda alcune singole applicazioni digitali. Ad esempio il
cloud, di primaria importanza durante i vari lockdown e la conseguente
riorganizzazione del lavoro da remoto, è stato utilizzato da circa il 60% delle
aziende nell’anno 2020 con una crescita del 36% rispetto al 2018. Allo stesso
modo si segnala una crescita significativa nell’installazione di robot e nel
ricorso all’intelligenza artificiale rispetto alle principali economie manifatturiere
dell’Unione Europea. Meno impiegati i Big Data, i software di gestione
aziendale e il commercio elettronico.
Spunti di riflessione per le politiche pubbliche del
futuro prossimo
L’istituto, però, non si limita a fornire un quadro statico del livello di
digitalizzazione delle imprese. La disamina effettuata è forse l’elemento più
significativo e aiuta a comprendere perché una maggiore adozione
tecnologica è fondamentale per incrementare la produttività e costruire
un’economia resiliente agli shock. I dati mostrano, infatti, che le imprese con
maggiori capacità tecnologiche, nonostante le prospettive ancora incerte per
quanto riguarda la crisi, stanno pianificando un incremento dei processi di
digitalizzazione. Inoltre sono orientate a implementare modelli organizzativi
4.0 e a stabilire partnership in questo senso con altri soggetti esterni.
Il Rapporto Annuale 2021 dell’Istat fornisce ottimi spunti di riflessione per le
politiche pubbliche del futuro prossimo. Innanzitutto conferma che i vari piani
per l’Industria 4.0, oggi Transizione 4.0, hanno avuto effetti positivi per quanto
riguarda l’implementazione di nuove soluzioni tecnologiche e l’installazione di
nuovi macchinari. Tuttavia hanno avuto un impatto limitato per quanto
riguarda le competenze digitali all’interno delle aziende. Questo in virtù anche
del sotto-dimensionamento delle imprese italiane e di una propensione minore
agli investimenti nella formazione continua del personale.
Questo comporta una doppia dinamica: limitazione nel pieno utilizzo delle
tecnologie a disposizione e ricorso a forme esterne di consulenza o impiego.
Correggere questo aspetto negativo è possibile e richiede in questa fase
storica di rendere complementari le azioni politiche. Da una parte il piano
Transizione 4.0 cerca di agire con un credito d’imposta ad hoc. Dall’altra, il
PNRR prevede investimenti in tale direzione per un totale di 1,6 miliardi, di cui
1,1 dedicati alle materie STEM. Tutto fa brodo ovviamente. La sensazione è
che il cambiamento debba avvenire in modo strutturale e coinvolgere non
solamente le imprese, ma tutto il sistema dell’educazione nonché delle
connessioni tra l’universo privato e pubblico affinché il travaso di competenze
sia diretto e continuo.
Un’altra riflessione da questo quadro finale disegnato dalle rilevazioni Istat per
l’anno 2020. Il divario tra imprese non è più solamente settoriale o geografico.
Per comprendere le criticità e anticipare eventuali situazioni critiche, come
quella attualmente in corso, è necessario più che mai intervenire sui livelli di
innovazione e adozione tecnologica e digitale. Non si tratta solamente di
migliorare i parametri economici e di tendere a uno sviluppo progressivo,
bensì di costruire un tessuto in grado di resistere nel miglior modo possibile
alle oscillazioni periodiche e di garantire livelli essenziali di produzione, servizi
senza stravolgere i suoi assetti organizzativi di base.
Produttività, ricerca e investimenti le chiavi per la
ripresa
La strada indicata dallo stesso Rapporto va in quella direzione e indica il
PNRR come pacchetto di politiche su cui impostare un percorso fatto di
produttività, ricerca e investimenti. Proprio quei tre fattori che sono venuti a
mancare da tempo e senza i quali sono emerse tutte le debolezze del sistema
italiano. E l’impegno per garantire un recupero incentrato sull’innovazione
tecnologica dovrà venire non solo dagli investimenti pubblici, fondamentali,
ma anche dal privato e dalla sua capacità di integrare e far fruttare gli stimoli
che – si spera – deriveranno dai fondi europei.
Uno strumento fondamentale, indicato proprio dall’Unione Europea, può
essere quello delle partnership-pubblico private. Esse hanno il potenziale di
essere funzionali ai fondi europei e agli investimenti pubblici, di facilitare policy
di technology transfer e di allocare in modo strategico le risorse. Anche in
questo caso non è sufficiente prevedere lo strumento nelle varie strategie di
investimento.
Diventa fondamentale affrontare i nodi che le rendono a volte depotenziate in
modo che l’attuazione del PNRR attraverso questo strumento sia efficace al
massimo. Quindi, semplificare i processi del Codice dei Contratti e rafforzare il
personale nelle PA dedicato a queste forme di cooperazione con il privato.
Il PNRR non può essere la soluzione di tutti i mali. Il cambiamento deve
coinvolgere tutti i settori e le procedure. Altrimenti rischia di essere un
percorso interrotto a metà e l’Italia di rimanere in un circolo vizioso di ritardi e
mancate opportunità.

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