FINANZA E POLITICA/ Il “rischio Italia” nonostante la risalita del Pil

FINANZA E POLITICA/ Il “rischio Italia”
nonostante la risalita del Pil

di Stefano Cingolani

Il Pil in Europa, in Italia in particolare, continua a salire e questo
paradossalmente rappresenta un problema per il nostro Paese
La Banca centrale europea, la Banca europea degli investimenti, la
Commissione di Bruxelles, tutti intonano la stessa melodia: la ripresa è forte,
più del previsto, l’economia dell’Unione ha colmato il fossato aperto dalla
pandemia e viaggia a ritmi elevati anche quest’anno. L’Italia in particolare
corre più degli altri; anche se con il 6,5% del 2021 non ha ancora recuperato il
crollo del 9% nel 2020, di questo passo lo farà prima dell’estate. È vero che
negli ultimi mesi – complici la variante omicron, la mini-crisi del gas e le
difficoltà di un’offerta che non riesce a tener dietro all’impetuoso balzo della
domanda internazionale – si è visto un certo rallentamento, tuttavia l’ottimismo
regna sovrano. E questo è un bene, la psicologia è una componente
fondamentale dell’economia, lo avevano già detto i classici e adesso fa parte
integrante del nuovo paradigma teorico. Il paradosso è che una congiuntura
tanto vivace può diventare un problema. In che senso?
Lo ha già segnalato la Federal Reserve, la banca centrale americana: la
produzione tira, l’occupazione aumenta, crescono i salari e i consumi, sale
l’inflazione (è arrivata al 7% negli Stati Uniti). Quindi, la politica monetaria
deve cambiare prima che sia troppo tardi. Si comincia riducendo e poi
interrompendo l’acquisto di titoli sul mercato, poi si passa a un aumento dei
tassi d’interesse. Tutto ciò per raffreddare la febbre dei prezzi e per allineare
la dinamica della moneta a quella della produzione, evitando che l’eccesso di
liquidità gonfi una bolla destinata a esplodere. Il pericolo, insomma, è che si
creino le condizioni di una nuova crisi finanziaria come quella del 2008. La
situazione è diversa, allora la congiuntura mondiale era in discesa e oggi ci
sono maggiori strumenti per evitare gli eccessi. Tuttavia, la storia dimostra che
le crisi non sono prevedibili, né, per lo più, evitabili: una volta che la palla di
neve scivola a valle si può tutt’al più ridurne la velocità.
In Europa non siamo arrivati a questo punto, l’inflazione cresce, ma a ritmi più
moderati, ciò vale anche per salari e consumi. La Bce è gonfia di titoli di stato
e mantiene il costo ufficiale del denaro al di sotto dello zero, una situazione
innaturale se non paradossale dal punto di vista teorico e pratico. Non può
durare. Da molte parti, dunque, aumenta la pressione per un “ritorno alla
normalità” nella politica monetaria senza per questo danneggiare l’economia
reale. È quel che sostiene la “scuola germanica”, lo ha detto recentemente
Otmar Issing uno degli economisti più ascoltati e la pensa così Joachim
Nagel, il presidente della Bundesbank che ha sostituito a dicembre Jens
Weidmann, “una scelta all’insegna della continuità”, come ha detto Christian
Lindner, il ministro delle Finanze liberale. Christine Lagarde prende tempo,
però l’argomento tedesco sembra molto ragionevole: meglio muoversi per
tempo e procedere passo dopo passo, invece di rischiare una brusca svolta
che avrebbe, questa sì, un impatto negativo sulle aspettative e sulla stessa
crescita. Dunque, la svolta è nelle cose, si tratta solo di capire come e
quando.
È uno scenario nient’affatto positivo per l’Italia e il rimbalzo dello spread tra il
Btp decennale e il Bund a dieci anni tedesco, arrivato a 150 punti base
(1,5%), fa da semaforo giallo. L’industria tira l’intero Pil soprattutto grazie alle
esportazioni, ma anche la domanda interna si è mossa. Tuttavia, la ripresa è
appesantita da un debito peggiorato di venti punti di Pil in due anni
(quest’anno dovrebbe fermarsi a quota 150%). Se la crescita continua robusta
fino al 2023, il rapporto con il prodotto lordo può cominciare a scendere. Ma è
una funzione aritmetica, per quanto importante come la lancetta di un
manometro. Il debito in quantità continua a gonfiarsi e il Tesoro deve collocare
un numero sempre maggiore di titoli, se la Bce smetterà di comprarli, dovrà
fare i conti con il mercato il quale chiederà tassi più elevati per compensare il
maggior rischio. Dunque, il costo è destinato a peggiorare anche a
prescindere da quel che deciderà la banca centrale sui tassi di riferimento. È
per questo che l’Italia, nonostante la sua spettacolare performance, per le
agenzie di rating resta ancora a quota tre B, cioè poco più su del livello di
guardia.
Il peso del debito pubblico si accompagna al giudizio negativo sulla qualità
della spesa, sulla sua efficienza, sui tempi di esecuzione, il che getta
un’ombra sulla realizzabilità degli investimenti finanziati dall’Ue. Il Pnrr è
ancora sulla carta, i cantieri debbono partire e quest’anno sarà decisivo per
capire se l’Italia riuscirà a mantenere gli impegni, quindi a ottenere i
finanziamenti previsti. C’è nell’aria, resa mefitica dalle querelle sul Quirinale,
il profumo dei soldi, tuttavia non arriverà più un euro se non passeremo al più
presto dalle parole (per ora tante, persino troppe) ai fatti (finora pochi).
Possiamo chiamarli austeri, frugali, avari, ma i contribuenti dei Paesi che
debbono finanziare l’Italia vogliono risultati. Pagare moneta, vedere cammello,
come si usa dire.
L’incertezza politica, le divisioni tra i partiti che reggono il Governo, la difficoltà
di individuare un candidato bipartisan per la presidenza della Repubblica, il
rischio che cada il Governo e quest’anno trascorra in baruffe pre-elettorali, le
incognite sul futuro di Mario Draghi, tutto questo fa cadere un fitto banco di
nebbia che impedisce di vedere sia la moneta, sia il cammello. Speriamo che
di qui a una settimana scompaia tutta questa caligine.

FONTE – IL SUSSIDIARIO.NET

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