Gli ostacoli geopolitici dell’Italia a corto di
gas. Parla Nicolazzi
di Francesco De Palo
L’esperto manager: “Abbiamo costruito un’infrastruttura rigida che, se
resta quella che è, implica un aumento della quota di gas importato dalla
Russia. Non illudiamoci che ci sia un piano B rispetto agli eventi che si
verificheranno domani. Mi stupisco che nessuno documenti la
possibilità di una transizione dentro la transizione”
Estrarre più gas italiano? Per puro ottimismo nel giro di un paio d’anni
potremo produrre appena 4 miliardi di metri cubi aggiuntivi di gas mentre ne
stiamo importando ben 65. Lo dice Massimo Nicolazzi, manager con alle
spalle una solida esperienza nel settore degli idrocarburi, (Eni e Lukoil), che
alla luce dell’ultimo rapporto del Copasir sull’energia traccia una linea analitica
sulle esigenze italiane ed europee.
Come può l’Italia svincolarsi dalla dipendenza dal gas russo?
Intanto sarebbe utile capirne i tempi. L’Ue ha già detto che in futuro dovremo
fare a meno di tutto il gas, non solo di quello russo. Il problema è cosa faremo
nel prossimo inverno, poi un pezzo alla volta penseremo al resto. Distinguerei
due piani: il primo riguarda di quanto gas abbiamo bisogno. La domanda non
può cessare domattina ma ci sarà ancora un po’ di tempo perché tutti siano in
condizione di diminuirlo. Durante gli ultimi sette anni la produzione interna
europea di gas si è quasi dimezzata e, a fronte di questo, che dovrebbe
richiedere un aumento di importazioni a titolo compensativo, mi sembra di
aver visto come nuove infrastrutture solo il Tap e il Nord Stream 2. Le
infrastrutture sono quelle che ci consegnano ai fornitori. Siamo in una
situazione nella quale competiamo con il mercato asiatico più o meno a parità
di prezzi, per i carichi di gnl (che va dove lo porta il prezzo).
Noi ci lamentiamo però dei prezzi europei…
Sì, ma fondamentalmente negli ultimi mesi da quel punto di vista abbiamo
fatto un mercato comune con l’Asia: quando uno dei due punti di ingresso del
gnl prezzava più dell’altro, immediatamente partiva un riequilibrio perché
alcuni carichi cambiavano destinazione. Al netto del gnl, sul quale non mi
consta che nessun importatore europeo abbia preso degli impegni di lungo
periodo (conosco solo situazioni di spot), osservo invece che i cinesi stanno
stipulando contratti con gli Stati Uniti per l’importazione, uno dei quali è di 19
anni. Noi al momento non abbiamo contratti che garantiscano volumi di gnl,
ma abbiamo una serie di infrastrutture fisse che si chiamano metanodotti.
Quali previsioni allora si sente di fare?
Se guardo al futuro, non so quanto riuscirà a tenere come produzione l’Algeria
o quanto sia affidabile la Libia. Ma so che, oltre al crollo della produzione
interna europea, accanto al fatto che anche la Norvegia potrebbe avere
problemi di rimpiazzo delle riserve, abbiamo costruito un’infrastruttura rigida
che, se resta quella che è, implica un aumento della quota di gas importato
dalla Russia. Questa è la fotografia di oggi, tutto il resto mi sembra fantasioso.
Quindi la proposizione numero uno è che la domanda di gas per alcuni anni
continuerà, la proposizione numero due è che le attuali infrastrutture
determineranno da dove lo prenderemo.
Al di là dell’emergenza pandemica, l’attuale scenario energetico legato
alle crisi in Ucraina o Libia non è stato sufficientemente previsto con un
piano B?
Non illudiamoci che ci sia un piano B rispetto agli eventi che si verificheranno
domani: solo un piano A di medio-lungo periodo. In base ad alcuni utilizzi del
gas la situazione non lo consente. Si stanno moltiplicando le cose la cui
assenza può essere sostituita solo dal gas. Una volta a livello di fossili si
usavano molto più olio combustibile e carbone. Se in Brasile crolla la
produzione idro-elettrica, bisogna importare più gas. Se nei mari del nord le
pale eoliche viaggiano al di sotto delle previsioni, occorre usare più gas.
Il fatto che sia diventato l’unico riferimento cosa comporta?
Rende il suo prezzo molto più volatile, è un booster per mantenerne i prezzi
su livelli alti. Noi, per aumentare l’elettrico, dovremmo fare cinque o sei volte
in più rispetto a oggi di generazione intermittente come nuovi investimenti
annui. Siamo in grado di farlo? E non risolverebbe completamente il problema
per il prossimo inverno, sia chiaro, ma modificherebbe la struttura della
domanda elettrica in punta di fonte, perché il sistema ha le sue rigidità.
Nell’ultimo rapporto Copasir sull’energia si legge che l’Italia dovrebbe
favorire la ricerca di gas e il suo sviluppo. Una partita che saremo in
grado di giocare, prima che di vincere o perdere?
Non so quale e quanta resistenza una cosa di questo genere andrebbe a
suscitare, anche se me la immagino difficile. Non voglio dire che non
dovremmo provarci. Mi farebbe piacere se si producesse più gas, perché
aumenterebbe il contributo nazionale ai consumi. Mi farebbe più piacere
anche dal punto di vista delle emissioni e dell’inquinamento: più il gas viaggia
e più se ne disperde in atmosfera. Quello consumato in Italia che arriva
dall’Adriatico emette meno rispetto a quello che giunge dalla Russia, una cosa
sulla quale gli oppositori non riflettono. Comunque vada, non dimentichiamo
che stiamo parlando solo di un aiutino: vedo che adesso il punto di
compromesso sembra essere di investire nei campi già in produzione senza
aprirne di nuovi. Forse è percepito come politicamente più accettabile, ma
vuol dire che per puro ottimismo nel giro di un paio d’anni potremo produrre 4
miliardi di metri cubi aggiuntivi di gas mentre ne stiamo importando ben 65.
E i nuovi giacimenti?
C’è un nodo: la zona più promettente è stata congelata 30 anni fa perché
qualcuno ha insinuato il sospetto che le perforazioni in Adriatico avrebbero
fatto sprofondare Venezia.
Come osservato pubblicamente da Paolo Scudieri, presidente di Anfia
(la filiera automobilistica italiana) la mobilità europea punta sì a
elettrificare auto e mezzi pesanti, ma al contempo mettendo fuori legge
benzina, diesel e gas “in modo acritico e del tutto ingiustificato” si
rischiano di perdere posti di lavoro, circa 70mila in Italia e 500mila in
Europa. Come legare transizione energetica e occupazione?
Confesso che è un dibattito nel quale esito ad entrare. Gli ottimisti della
transizione, tra cui anche qualche grosso organismo internazionale,
osservano che i posti persi si moltiplicheranno da un’altra parte, dando per
certa la riconversione. Si tratterà comunque di spostare famiglie concrete e
non posti di lavoro astratti. In tutto ciò mi fa specie che il dibattito politico in Ue
sembri dare per scontato il monopolio dell’elettrico nel futuro della nostra
mobilità, quando invece si potrebbe lavorare alla possibilità di una transizione
dentro la transizione ad esempio utilizzando in sostituzione dei fossili per il
trasporto più biocarburanti. Mi stupisco che quasi non se ne parli.