ANALISI ECONOMICA – Il vero “stakeholder capitalism” mette in discussione gli equilibri di potere. Non c’è transizione ecologica senza un ruolo da protagonisti delle imprese e della finanza privata.

Il vero “stakeholder capitalism” mette in
discussione gli equilibri di potere
Non c’è transizione ecologica senza un ruolo da protagonisti delle
imprese e della finanza privata.
Ma gli impegni assunti finora non
sono sufficienti: è necessario riconoscere ai portatori d’interesse
un peso maggiore nella conduzione aziendale
di Donato Speroni
Da lunedì 14, scienziati di tutto il mondo si stanno riunendo virtualmente per
due settimane per approvare, riga per riga, il Summary for policymakers
dell’ultima sezione del Sesto rapporto dell’Ipcc, il panel dell’Onu che studia i
cambiamenti climatici. Questa sintesi, destinata a chi ha il potere di decidere,
è molto attesa, perché descriverà gli effetti del riscaldamento sui sistemi
umani e ambientali e le possibilità di adattamento. Commenta la newsletter
dell’Economist:
È improbabile che i risultati siano di piacevole lettura: ogni round dei rapporti
Ipcc ha descritto situazioni più allarmanti rispetto al precedente. Ma ci sarà
spazio anche per la speranza. Il nuovo rapporto dovrebbe dimostrare che
l’umanità oggi più che mai dispone di soluzioni potenziali, a condizione che
esista la volontà politica per metterle in pratica.
Che le cose sul fronte della transizione ecologica non stiano andando bene,
ce lo dicono diversi documenti usciti in queste settimane. Un rapporto
pubblicato dall’International institute for sustainable development
segnala che i negoziati internazionali sul clima, biodiversità, plastica e altri
temi ambientali hanno fatto pochi passi avanti nel 2021, anche a causa del
rafforzarsi delle preoccupazioni economiche legate alla pandemia, spesso
viste in contrapposizione rispetto alle azioni per la sostenibilità. Il 2022 sarà un
very busy year, ricco di confronti multilaterali, e c’è da sperare che le cose
vadano un po’ meglio. Da segnalare anche che, prima ancora del termine
della riunione dell’Ipcc, il 28 febbraio a Nairobi si riunirà la Quinta sessione
dell’Environment assembly dell’Onu, per “mettere la natura al centro della
ripresa economica”, obiettivo molto bello e importante, ma certamente molto
difficile.
Di fronte ai pericoli incombenti, la gente si sente meno sicura: è questo
l’allarme contenuto in un nuovo rapporto dell’Undp, “New threats to human
security in the Anthropocene – Demanding greater solidarity”:
Non è difficile rendersi conto che il Covid-19 ha aumentato il senso di
insicurezza delle persone. Ma che cosa spiega la sorprendente biforcazione
tra i miglioramenti del benessere e il calo nella percezione di sicurezza? (…)
Sullo sfondo di questa biforcazione ci sono le caratteristiche dell’Antropocene,
cioè dell’età nella quale gli uomini stanno distruggendo i processi planetari. Le
strategie di sviluppo incentrate sulla crescita economica, con molta meno
attenzione allo sviluppo umano, hanno prodotto disuguaglianze grandi e
crescenti, e cambiamenti planetari destabilizzanti e pericolosi.
È davvero possibile cambiare rotta? Dopo le (moderate) speranze create dalla
Cop 26 di Glasgow, il mondo sta ritornando allo scetticismo, scrive Bloomberg
green.
Tre mesi dopo la Cop 26, una combinazione tossica di intransigenza politica,
crisi energetica e strategie economiche indotte dalla pandemia hanno rimesso
in discussione i progressi fatti in Scozia. Nel 2021 si era sperato che i più
grandi inquinatori fossero finalmente disposti a fissare obiettivi ambiziosi di
emissioni zero. Il 2022 già minaccia di essere un anno di arretramento
globale.
La stessa fonte segnala uno studio della società McKinsey & Co. nel quale si
valuta un fabbisogno annuale globale di 9.200 miliardi di dollari in energia e
gestione del territorio (dall’agricoltura alla riforestazione) per arrivare a
emissioni zero nel 2050. È vero che non si tratta di denaro speso a fondo
perduto, che la svolta verde creerebbe nuove imprese e nuovi posti di lavoro,
ma è comunque una importante riconversione che richiede una forte volontà e
che lascia sul terreno morti e feriti, forse non solo metaforicamente, se si
considerano le pesanti implicazioni sociali.
Che ruolo svolgono in questo contesto le grandi imprese e i grandi investitori?
Sulla newsletter dell’Economist, un articolo di Vijay Vaitheeswaran, global
energy & climate innovation editor, analizza il caso delle corporation produttrici
di petrolio, chiedendosi se devono essere messe al bando da parte degli
ambientalisti, come si è fatto per i produttori di tabacco. Ma il giudizio è meno
severo.
Le compagnie petrolifere occidentali possono svolgere un ruolo importante
nella transizione verso una energia a basse emissioni. Quelle che erano
titubanti nell’affrontare seriamente il tema della crisi climatica vengono
costrette a farlo da parte degli attivisti e anche degli investitori. Questo è
accaduto a maggio per la Exxon Mobil che aveva per molto tempo rifiutato di
adottare obiettivi precisi nella riduzione delle emissioni. Il 18 gennaio il gigante
petrolifero texano ha svelato una strategia per abbattere le emissioni dei gas a
effetto serra per arrivare all’obiettivo zero nel 2050.
Il commentatore dell’Economist avverte però che queste promesse sono
accompagnate dall’impegno a mantenere lo stesso livello di profitti per la gli
azionisti. In realtà non ci sono progetti precisi che garantiscono questo
risultato: ci si affida all’attesa di interventi di sostegno governativo.
I petrolieri texani si presentano abitualmente come rudi individualisti, ma
l’unico modo nel quale Big oil può fare Big profits è con l’aiuto di Big
government.
Si arriva così al nocciolo del problema: solo nuove e coraggiose strategie da
parte delle imprese e della finanza, assumendo rischi non indifferenti,
possono consentire di raggiungere gli obiettivi della transizione ecologica. In
teoria, questo è il cuore dello stakeholder capitalism, il capitalismo attento a
tutti i portatori d’interesse: dipendenti, consumatori, comunità, ambiente, che
viene contrapposto allo shareholder capitalism, il capitalismo attento solo ai
profitti degli azionisti. Ricordiamo che a questo tema Futuranetwork ha
dedicato un incontro nel maggio 2021. Ma non è neppure facile definire che
cosa deve essere lo stakeholder capitalism. Larry Fink, per esempio, il
presidente del grande fondo di investimenti Blackrock, è portatore spesso di
questa forma di capitalismo perché i suoi rappresentanti nelle società
partecipate si battono per una maggiore apertura alla sostenibilità. Ma
l’impostazione di Fink è stata messa duramente in discussione
dall’economista Mariana Mazzucato. Il titolo del suo articolo “Larry Fink’s
capitalist shell game” si può tradurre con “Il gioco capitalista delle tre tavolette
di Larry Fink”.
La tesi di Mazzucato è che il valore che si crea nell’impresa non appartiene
soltanto all’impresa e cioè agli azionisti, che possono graziosamente decidere
di guardare anche agli interessi degli altri portatori d’interesse.
Che si parli di tecnologia, di farmaceutica o di energia, le grandi innovazioni
che hanno prodotto valore per gli azionisti sono il più delle volte il risultato di
un investimento pubblico. Buona parte delle innovazioni che spingono la
rivoluzione farmaceutica di questi giorni sono state finanziate da investimenti
ad alto rischio nei primi stadi di sviluppo da parte di organizzazioni come i
National institutes of health degli Stati Uniti, che investono annualmente oltre
40 miliardi di dollari. (…) E lo Stato non è l’unico portatore di interessi che
partecipa alla creazione di valore. Un grande contributo viene dai lavoratori.
Non c’è bisogno di essere marxisti per riconoscere che il lavoro (e i beni
naturali) crea altrettanto valore quanto i proprietari dei mezzi di produzione.
Infine, un vero stakeholder capitalism richiede un nuovo contratto sociale,
sostenuto da un nuovo consenso economico globale, che metta il valore
pubblico prima del profitto privato e che promuova l’ecosistema della
creazione di valori.
Come si vede, al fondo del ragionamento di Mazzucato c’è la questione del
potere. In estrema sintesi, non possiamo avere transizione ecologica senza
un ruolo fondamentale delle imprese e della finanza verde. Quanto però si sta
facendo non è sufficiente, perché la preoccupazione di tutelare i profitti
rallenta gli impegni, a meno che non siano garantiti dalla collettività. A questo
punto però, la collettività ha diritto ad avere più peso, anche nelle decisioni
aziendali. C’è tanta materia per discutere perché questi discorsi sul “nuovo
capitalismo” richiedono una messa a fuoco. Nessuno infatti vuole ritornare a
un “capitalismo di Stato”. Servono forme nuove di partecipazione, ma c’è
molto da inventare, sulla spinta di una emergenza che non ci lascia molto
tempo.

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