MODA – Studio Ambrosetti: le proposte per un’industria della moda sostenibile

Studio Ambrosetti: le proposte per
un’industria della moda sostenibile


Fast fashion, digitale e giovani spingeranno il settore, dice la ricerca
“Just fashion transition”, ma per accelerare il percorso di transizione
servono dati più efficienti sugli impatti ambientali e obiettivi condivisi.
di Monica Sozzi
Criticità, sfide e opportunità della transizione sostenibile nel settore fashion:
questo l’obiettivo del rapporto “Just fashion transition” (qui la sintesi)
presentato all’ultimo Venice Sustainable Fashion Forum, l’iniziativa ideata,
progettata e realizzata da The European House-Ambrosetti, Sistema Moda
ItaliaCamera Nazionale della Moda Italiana e Confindustria VeneziaRovigo.
Obiettivo principale del Forum, a cui sono intervenuti istituzioni, brand,
professionisti di filiera, rappresentanti del mondo dell’industria e dell’impresa,
Ong, è accelerare un percorso di transizione sostenibile in un settore che
soffre di carenza di dati e di strumenti di misurazione standardizzati.
Lo studio ha valutato le performance economico-finanziarie di 2.700 aziende
della catena di fornitura, la sostenibilità di 167 aziende della filiera italiana, e
ha analizzato gli strumenti di gestione della sostenibilità delle 100 più grandi
imprese europee.
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Fast fashion, digitale e giovani spingono la crescita. I tre principali fattori a
trainare i volumi del settore moda nei prossimi anni saranno la Fast Fashion,
ossia la tendenza ad acquistare abiti economici e alla moda, le tecnologie
digitali e i giovani. Le aspettative del settore sono di una crescita annua
globale intorno al 6%, si riducono i prezzi e i cicli di produzione, ma solo il
3,5% del valore complessivo del mercato è legato a pratiche di economia
circolare quali rivendita, noleggio, riparazione e remaking.
L’impatto del settore moda e l’importanza delle istituzioni. Lo studio fa
presente che, oltre a mancare dati univoci sugli impatti globali ambientali (a
seconda delle stime tra il 2% e l’8,1% delle emissioni complessive) e sociali
del settore moda, secondo i dati Ue il 75% delle esternalità negative sia
prodotto all’inizio della catena del valore, fuori dall’Unione europea.
Sono le istituzioni internazionali, secondo lo studio, a spingere verso la
sostenibilità: in particolare l’Unione europea, con l’introduzione di strumenti
obbligatori o volontari che hanno l’obiettivo di standardizzare la misurazione
della sostenibilità di imprese e prodotti. Strumenti che cercano sempre più di
aumentare il livello di trasparenza dei brand e di responsabilizzarli nei
confronti della filiera di riferimento: secondo fonti comunitarie oggi gran parte
dei brand ha assunto impegni e definito obiettivi di sostenibilità, ma meno
della metà di questi è in grado di fornire evidenze che supportino tali
dichiarazioni, rendendole fuorvianti e infondate.
Le certificazioni di sostenibilità. L’Europa, d’altra parte, si è posta
l’ambizioso obiettivo di diventare il primo continente neutrale per emissioni di
carbonio entro il 2050 e ha redatto una tabella di marcia di misure con obiettivi
intermedi per il 2030.
Il pacchetto “Fit for 55”, approvato dall’Ue nel luglio 2021, ad esempio,
prevede una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra rispetto ai livelli
del 1990 entro il 2030, un aumento al 40% della quota di energie rinnovabili
nel mix energetico e un obiettivo di efficienza energetica del 36%. Il Green
Deal dell’Unione europea e la “Strategy for Sustainable Textiles”
promettono un’accelerazione senza precedenti sulla sostenibilità del settore
fashion attraverso 25 linee di azione da implementare entro il 2027 per
assicurarsi che, entro il 2030, i prodotti venduti nell’Unione europea siano
duraturi, riciclabili, non pericolosi e a basso impatto sulla sostenibilità. Queste
linee d’azione si integrano in un sistema di iniziative lanciate dall’Europa per
aumentare la trasparenza e migliorare le performance di sostenibilità delle
aziende.
Esistono oggi più di 100 certificazioni di sostenibilità applicabili al settore
fashion. L’82% delle certificazioni sono di prodotto e riguardano le
caratteristiche degli articoli e la composizione dei materiali, mentre solo il 18%
riguarda i processi operativi. Relativamente ai temi presidiati, metà degli
strumenti di certificazione integra sia criteri ambientali che sociali, mentre le
certificazioni dedicate alle questioni sociali sono solo il 6%.
Poca attenzione ai temi sociali. Tra le aziende che si occupano di
sostenibilità, il cambiamento climatico risulta quello che attira la maggior
parte degli sforzi: circa il 60% ha fissato obiettivi quantitativi sulle emissioni
di CO2; più del 50% delle aziende ha stabilito obiettivi quantitativi sull’uso
delle materie prime. Per quanto riguarda i rifiuti, quasi il 100% delle aziende
ne parla ma il 48% si limita a rendicontare le performance passate senza
fissare alcun obiettivo. Infine, in tema di biodiversità, il 30% ha fissato
obiettivi. Passando al tema sociale: il 22% e il 13% stabiliscono impegni
qualitativi o quantitativi sugli aspetti legati al personale, mentre questi valori
scendono rispettivamente al 19% e all’11% per la salute e la sicurezza.
Le pmi italiane: margini e sostenibilità. The European House – Ambrosetti
ha condotto un’indagine sulla dimensione e la marginalità di oltre duemila
aziende italiane del settore, da cui risulta la prevalenza di imprese di piccola
dimensione. Dallo studio emerge che all’aumentare delle dimensioni cresce
l’adozione di strumenti per la gestione della sostenibilità, come il monitoraggio
delle performance di sostenibilità, la presenza di figure dedicate, l’ottenimento
di certificazioni di processo e di prodotto, l’analisi di materialità, la misurazione
delle emissioni, la rendicontazione e valutazione dei diritti umani dei fornitori.
Le sei raccomandazioni dello studio. Il Rapporto di The European House –
Ambrosetti formula le seguenti proposte:
● incoraggiare l’adozione, anche anticipata, degli strumenti volontari e
obbligatori che l’Ue mette oggi a disposizione per sperimentare e
fornire feedback e raccomandazioni per il miglioramento;
● per favorire la transizione, il governo si dovrà consultare in modo
flessibile con i principali attori dell’industria per definire un’agenda
annuale identificando priorità, attori coinvolti e principali linee d’azione;
● promuovere alleanze tra tutti gli attori a monte e a valle della filiera
moda, insieme al settore finanziario;
● creare un osservatorio, anche coinvolgendo le associazioni di
categoria e le alleanze industriali già esistenti, per raccogliere,
consolidare e sintetizzare i dati sullo stato dell’arte del settore;
● promuovere una maggiore consapevolezza delle aziende sui temi
della sostenibilità, sia ambientale che sociale;
● creare un tavolo congiunto tra Italia e Francia per fare del lusso non
solo un simbolo di qualità, ma anche un’avanguardia capace di guidare
la giusta transizione della moda.
Scarica la sintesi

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