L’ANALISI – Lo smart working è qui per restare: strumenti e competenze per aziende e lavoratori


Lo smart working è qui per restare:
strumenti e competenze per aziende e
lavoratori

Con l’esperienza dello smart working in pandemia, imprese e persone
hanno sperimentato quanto le tecnologie possano essere di aiuto nel
business, nel lavoro, dell’educazione, nella formazione e nei servizi in
generale. Ma occorre affrontare al più presto il problema della cultura
aziendale e delle competenze digitali
di Cinzia Ciacia
Sociologa del lavoro, Docente di Sociologia generale presso l’Università di
Roma Tor Vergata, Past Direttore generale SIT – Società Italiana Telelavoro
La pandemia ha accelerato il rapido sviluppo delle tecnologie emergenti (5G,
IoT, cloud computing) e aggravato ulteriormente lo skill mismatch a causa
dell’evoluzione dei modelli di lavoro verso lo smart working, forma di
organizzazione flessibile e intelligente, di cui difficilmente si potrà più fare a
meno.
Nel mondo complesso e in continuo cambiamento in cui viviamo le tecnologie,
sempre più potenti e pervasive, riducono, fino ad annullarle, le distanze,
rivoluzionando il mondo del lavoro e le nostre vite. In questo contesto, la
complessità e variabilità esterna al mondo del lavoro rende sempre più difficile
individuare ed esplicitare con precisione le competenze di cui le imprese
hanno bisogno.
Proviamo allora a mettere a fuoco cosa ha comportato e comporta
l’esperienza dello smart working che ha trascinato il ricorso massiccio alle
tecnologie digitali e con quali competenze e strumenti poter fronteggiare
l’emergenza del cambiamento di cui le organizzazioni hanno oggi più che mai
necessità.
Partiamo quindi dall’esperienza concreta, per tentare di individuare come dare
risposta alle esigenze delle nostre imprese.
Prima ancora, però, cerchiamo di capire i motivi di questa crisi, andando a
vedere cosa sta accadendo al lavoro, che cambia a una velocità vertiginosa,
mentre formazione e organizzazione non sembrano tenere il passo.
I costi dello skill mismatch
Dal lato della formazione, la crisi si manifesta con l’inadeguatezza delle
competenze dei lavoratori, che da tempo non si dimostrano più adatte o
compatibili con le esigenze lavorative: mentre emergono nuove figure
professionali, in passato del tutto sconosciute, si modificano le competenze di
mestiere più consolidate. Il risultato è che spesso mancano le competenze, a
volte invece sono superate. Questa situazione, effetto della transizione in atto,
coinvolge, seppur in misura diversa, tutti i paesi.
L’ultimo studio della multinazionale statunitense BCG – Boston Consulting
Group[1], ha calcolato che nel 2020 questa situazione è costata
complessivamente il 10% del Pil mondiale e che tale percentuale potrebbe
salire nel 2025 fino all’11%, pari a 18mila miliardi di dollari. La relazione tra
innovazione, produttività e sviluppo sostenibile, come dimostrano gli studi in
materia, è inversa: più aumenta lo “skill mismatch” e peggiore diventa la
prestazione di un paese. Guardando al nostro di paese, in base agli indicatori
elaborati dal BCG[2] nel 2018 ci trovavamo al 34esimo posto, dopo Cile e
Malesia, la nostra percentuale di skill mismatch ammontava al 38,2, con quasi
dieci milioni di lavoratori “male assortiti”.
In questa classifica di BCG non brilliamo in nessuno degli indicatori utilizzati:
● l’azione del governo per sviluppare nuove competenze è a 44,2 su 100,
al di sotto della media mondiale pari a 45;
● nella scuola l’insegnamento del pensiero critico ha un punteggio di 43
punti (più basso del 50% dei paesi al vertice);
● il livello di partecipazione ai Mooc[3] in Italia è due volte inferiore a
quello dei primi in classifica;
● la percentuale delle persone che lavoravano da remoto in epoca
pre-Covid era molto bassa (ai vertici della classifica Olanda e
Finlandia).
Ai costi economici di questo ritardo si aggiungono inoltre quelli psico-sociali: il
senso di inadeguatezza nell’affrontare le sfide del lavoro può portare
conseguenze negative da sopportare per l’individuo stesso, per l’impresa e la
comunità di appartenenza.
Nuove tecnologie e mutamento di paradigma
A livello aziendale, sebbene se ne avverta da lungo tempo la necessità, sono
ancora pochi gli interventi di sistema mirati a ripensare i modelli organizzativi.
Le aziende si sono limitate, nel tempo, a piccoli aggiustamenti senza
modificare il proprio modello di organizzazione manageriale.
Lo sviluppo improvviso e quasi generalizzato dello smart working, avvenuto
per necessità nel corso della pandemia, ha reso esplicite le potenzialità della
tecnologia, in particolar modo di quella digitale, mettendo in evidenza rischi e
limiti dei modelli di organizzazione e gestione consolidati, inadeguati a
fronteggiare i nuovi contesti.
Lo smart working è servito per rendere evidente a tutti come la tecnologia ha,
via via, modificato la concezione umana del tempo e dello spazio, fino a far
scomparire i confini aziendali, permettendoci l’ubiquità che ci consente di
essere presenti ovunque. Le imprese nella prima fase hanno reagito
adeguandosi all’emergenza, facendo in modo che i loro dipendenti potessero
lavorare senza recarsi in ufficio. I lavoratori dal canto loro si sono barcamenati
tra famiglia, lavoro, didattica a distanza, da far convivere negli spazi domestici
non sempre adeguati, impegnandosi, più o meno autonomamente, per
risolvere i problemi tecnologici a cui inevitabilmente andavano incontro. Solo
in seguito si è cominciato a comprendere che lo smart working è solo la punta
dell’iceberg, che funge da cartina da tornasole della crisi in atto.
L’esperienza vissuta ha cambiato le aspettative di imprese e lavoratori. Come
hanno dimostrato le migliori esperienze di questo periodo, le organizzazioni
che hanno avuto il coraggio di sperimentare appieno le potenzialità del lavoro
a distanza, hanno registrato aumenti di produttività, efficacia e relazioni
soddisfacenti. Per i lavoratori, soprattutto se giovani, lo smart working è
diventato un requisito irrinunciabile e un criterio fondamentale per la scelta di
un’opportunità professionale, quasi quanto la retribuzione e la sicurezza
contrattuale.
Ai benefici per le imprese e i lavoratori bisogna inoltre aggiungere i benefici
sociali e ambientali, in quanto la sua applicazione su larga scala ha favorito
l’inclusione delle persone che vivono lontano dalla sede di lavoro, dei genitori
e di chi si prende cura di anziani e disabili e la riduzione degli spostamenti,
oltre che dell’impatto ambientale[4].
La massiccia sperimentazione di smart working durante la pandemia ha
contribuito a rendere particolarmente evidente la crisi odierna in cui versano i
modelli tayloristici del lavoro. Crisi che viene da lontano, a testimonianza dei
ritardi accumulati nella comprensione delle trasformazioni che la tecnologia
sta imprimendo sul lavoro.
Questi cambiamenti, che si erano già annunciati con il Telelavoro, arrivato
negli anni Ottanta dagli USA in Europa, oggi richiedono, a maggior ragione, di
essere attuati per poter sfruttare le tecnologie a tutto vantaggio
dell’innovazione, della produttività, del benessere organizzativo e – non da
ultimo – dello sviluppo sostenibile.
Al di là di ogni retorica, seppure il lavoro a distanza da solo non basta a
rispondere alle necessità di innovazione, esso ci può aiutare nella
comprensione delle dinamiche in atto, oltre che insegnarci che cambiare è
possibile, cosa che si sta già facendo.
Una cultura pronta per il lavoro a distanza
Il rapido passaggio al lavoro a distanza, avvenuto in tutto il mondo per effetto
della pandemia, è stato una transizione tutt’altro che omogenea[5]. La
ricalibrazione delle competenze e delle tecnologie necessarie per mantenere i
dipendenti connessi è avvenuta con notevoli differenze tra i diversi paesi e i
risultati sono stati naturalmente diversi, a seconda del punto di partenza:
laddove la forza lavoro a distanza era già considerevole, le necessità di
adeguamento sono state molto minori[6].
Una best practice a cui guardare, fra tutte, per restare in Europa, è
rappresentata dall’Olanda, al primo posto generale della classifica Fsa[7],
appena vista, di BCG.
L’Olanda ha avuto diversi vantaggi durante il lockdown. È stato tra i primi
paesi a livello europeo, insieme alla Finlandia, ad aver sviluppato il Telelavoro
e, in tempi più recenti, lo smart working. In questo paese il 98% delle
abitazioni ha accesso a Internet ad alta velocità e i datori di lavoro offrono a
tutti i dipendenti la possibilità di un lavoro flessibile, oltre che un budget per
disporre di un lavoro domestico confortevole e produttivo; inoltre aiutano i
lavoratori, se necessario, a organizzare spazi di coworking.
Qui lavoratori e i cittadini, più in generale, sono abituati ad utilizzare le
tecnologie digitali. Non a caso vi si trovano molti dei nostri “cervelli in fuga”,
che dopo aver sviluppato saperi e conoscenze, potrebbero tornare in Italia,
ma non vogliono rinunciare ai benefici di una società digitale e di un lavoro in
cui si è giudicati per ciò che si offre e non perché si sta su una scrivania tutti i
giorni, magari anche oltre l’orario di lavoro.
Oggi le imprese devono tenere conto che un’organizzazione del lavoro
obsoleta, incapace di valorizzare le persone, non solo non fa profitto, ma
causa stress, mobbing, burnout e demotivazione. Al contrario,
un’organizzazione orientata ai principi di autonomia, flessibilità e sui risultati,
rappresenta un’opportunità di miglioramento e condizione imprescindibile per
attrarre e trattenere talenti.
Questa visione, ormai ampiamente condivisa, dimostra il successo delle
aziende che hanno adottato modelli organizzativi «paritari», che mettono
l’uomo al centro, senza gerarchie[8].
Competenze critiche per il lavoro “smart” (e per lo smart
working)
Secondo alcuni esperti, occorre affrontare al più presto ed in modo efficace il
problema della elevata qualità della domanda di e-skill, o competenze digitali,
a cui corrisponde nell’insieme un quadro di competenze professionali spesso
troppo generiche. Ciò ci permetterebbe, oltre che di trarne benefici in termini
economici, anche di aumentare il benessere dei lavoratori e della collettività
più in generale.
Non ci si può però limitare ad acquisire nella pratica le capacità di utilizzo
delle tecnologie digitali – cosa che molti lavoratori hanno fatto durante la
pandemia – ma è necessario anche sviluppare quella parte di competenze
digitali necessarie per utilizzare con spirito critico le tecnologie
dell’informazione e della comunicazione e quelle necessarie per applicarle e
svilupparle.
C’è bisogno, inoltre, di ulteriori competenze per adattarsi alle novità e agli
imprevisti nei contesti sempre più complessi e imprevedibili in cui lavoriamo e
viviamo, per orientare il pensiero e l’agire in modo innovativo e cogliere le
opportunità offerte dalle tecnologie di cui disponiamo.
La flessibilità cognitiva
Particolarmente strategica, tra queste, è la flessibilità cognitiva. Dobbiamo
puntare sulla flessibilità se vogliamo dotare al più presto i lavoratori di oggi e,
ancor più, quelli di domani, quando la parte intellettuale del lavoro umano avrà
il sopravvento su quella manuale, delegata ai robot, delle competenze
necessarie per il lavoro “smart”.
Flessibilità è collaborazione e condivisione, è capacità di lavorare in gruppo, di
contribuire con il proprio sapere, esperienza ed emotività al lavoro di squadra,
di organizzare il proprio lavoro con quello degli altri, assumendosi comunque
le proprie responsabilità. È sapersi dare delle priorità ed effettuare cambi di
rotta in caso di difficoltà e momenti di crisi, a cui però si deve essere capaci di
far fronte con tempestività e lucidità.
Lo sviluppo della flessibilità cognitiva rende capaci di dare risposte tempestive
a situazioni non consuete, che presentano anomalie rispetto agli standard. Si
tratta di un pensiero attento ai particolari, che tiene conto degli strumenti di
analisi adottati e anche della dimensione emotiva, in grado di
contestualizzare, ovvero di adottare comportamenti diversi in relazione ai
mutamenti osservati.
Il pensiero critico
Questo tipo di flessibilità si basa sul pensiero critico, o pensiero del
cambiamento, per essere capaci di cogliere il senso, di interpretare fatti ed
eventi dei nuovi contesti in cui agiamo e di sperimentare il nuovo.
Il pensiero critico si basa sull’osservazione, l’esperienza, il ragionamento e la
comunicazione. Il suo fine ultimo si fonda sul tentativo di andare al di là della
visione e della prospettiva del singolo soggetto. È un’intelligenza più di tipo
scaltro, sottile, strategico, vicino all’antica metis dei Greci , (metis è la dea
della sottigliezza, della furbizia) che si contrappone al logos, alla razionalità
logica che ha informato le strutture e le modalità di ragionare delle
organizzazioni tradizionali, che andava bene in contesti stabili o in lento
cambiamento: nel contesto in continuo mutamento in cui viviamo “non c’è più
una risposta unica e spesso ci si deve accontentare di risposte
approssimative. Bisogna imparare allora a invertire la sequenza: è solo
abituandosi a farsi delle domande che forse è possibile rendersi conto di
come il vero problema sia un altro. Capire, cioè, quali sono le condizioni
passate che hanno determinato la situazione presente”[9].
Responsabilità e autonomia decisionale
Ulteriori competenze critiche sono rappresentate dalla responsabilità e
dall’autonomia decisionale. Queste, caratteristiche del lavoro manageriale, in
passato riguardavano solo le posizioni di comando, mentre oggi, con
l’intreccio delle relazioni che le reti digitali determinano a livello operativo e la
riduzione delle distanze, tra le posizioni in organigramma, è determinata dal
lavoro a distanza sono diventate competenze fondamentali per i lavoratori,
“smart”.
Responsabilità significa rispondere del proprio operato, essere valutati in base
ai risultati conseguiti, rendendo i lavoratori compartecipi dei
successi/insuccessi dell’azienda.
L’autonomia decisionale presuppone saper scegliere dove andare e quali
mezzi utilizzare. Ma non significa decidere da soli, al contrario implica buona
capacità di ascolto e condivisione.
Conclusioni: impresa digitale e intelligenza collettiva[10]
Il cultural gap che le nostre organizzazioni hanno accumulato nei confronti
delle trasformazioni in atto è ormai abissale. Lo dimostra il numero di giovani
che rinuncia al lavoro per le difficoltà di stare in un mondo del lavoro
assolutamente incomprensibile e lontano da una società tecnologicamente
avanzata. Se prima l’azienda rappresentava l’innovazione, oggi rappresenta la
tradizione e l’inserimento in azienda per i giovani rischia di trasformarsi in
un’esperienza che si dimostra essere spesso demotivante e
professionalmente poco interessante[11].
Con l’esperienza forzata dello smart working, durante la pandemia da
Covid-19, le imprese e le persone hanno sperimentato quanto le tecnologie,
quelle digitali in particolare, possano essere di grande aiuto, nel campo del
business e del lavoro, come in quello dell’educazione, della formazione e dei
servizi in generale.
La massiccia e quasi generalizzata sperimentazione di lavoro remoto ha reso
evidente all’impresa la necessità di avviarsi sulla traiettoria del cambiamento.
L’occasione, in questa crisi epocale, è quella di creare organizzazioni flessibili,
che puntano sull’innovazione tecnologica e valorizzano al massimo il pensiero
critico, l’ascolto, la collaborazione e la condivisione di competenze.
La flessibilità però non è richiesta solo al dipendente, ma anche
all’organizzazione, come ha reso evidente la dislocazione del lavoro in
remoto, dal momento che le tecnologie hanno annullato i perimetri aziendali e
reso anacronistici i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro[12]. È
necessario pertanto adeguare i modelli organizzativi. Dobbiamo tradurre la
flessibilità per le nostre imprese in flessibilità organizzativa, il che significa dire
addio alla timbratura del cartellino lasciando spazio ad orari flessibili e lavoro
a distanza, Hybrid o Remoto[13], dove il lavoratore può scegliere i luoghi e
l’orario, libero di gestire in modo autonomo le condizioni di lavoro per arrivare
ai risultati finali necessari.
Per le nostre imprese si tratta di attuare un cambiamento profondo e radicale,
possibile in presenza di precise condizioni: la disponibilità di tecnologie
abilitanti, un nuovo modello organizzativo e una nuova cultura del lavoro.
Le trasformazioni in atto richiedono inoltre una formazione costante, che
l’azienda deve considerare importante quanto gli altri processi aziendali. Solo
in questo modo potremo garantire una transizione al nuovo paradigma senza
eccessivi traumi, evitando i rischi che il gap di competenze dei lavoratori abbia
conseguenze devastanti, sia per le aziende che per le persone.
Abbiamo, in estrema sintesi la necessità di sviluppare e valorizzare al
massimo l’intelligenza, i saperi, le esperienze, la creatività, l’emotività dei
singoli e allo stesso tempo la condivisione e la collaborazione delle persone,
per cercare di capire cosa serve per accompagnare l’impresa nel
cambiamento che vogliamo, per tornare ad essere un modello di innovazione
capace di apprendere ed essere flessibile di fronte alle necessità di
cambiamento, ma anche, allo stesso tempo, una comunità umana, in grado di
sfruttare l’energia delle tensioni per generare creatività e motivazione.
Note

  1. Boston Consultin Group, Alleviating the Heavy Toll of the Global Skills
    Mismatch, Dic. 2000 (Alleviating the Heavy Toll of the Global Skills Mismatch |
    BCG).
  2. Secondo gli studi del Boston Consulting Group già nel 2000 in tutto il mondo
    almeno 1.3 milioni di persone erano sovraqualificate o sottoqualificate. Per i
    paesi Ocse si trattava di un lavoratore su tre.
  3. I Mooc (Massive Open Online Courses) sono corsi di formazione online
    gratuiti o a pagamento aperti a chiunque e accessibili da qualunque parte del
    mondo attraverso una connessione a Internet. Sono disponibili principalmente
    in inglese, ma anche in numerose altre lingue tra cui l’italiano.
  4. Cfr. Osservatorio Smart working, Politecnico di Milano Osservatorio Smart
    Working: la Ricerca 2021).
  5. Cfr. Ciacia, C., “Lo Smart working prima e dopo la pandemia: nuovi modelli di
    lavoro per non tornare indietro”, Agendadigitale.eu, 19 Nov. 2021. ↑
  6. Cfr. Ciacia, C., 19 Nov. 2021, cit.
  7. L’indice Future Skills Architect (Fsa) è uno strumento messo a punto da BCG
    – Boston Consulting Group, che aiuta a individuare le cause sottostanti allo
    skill mismatch, consentendo di analizzare le perfomance di un Paese
    calcolandone l’indice di “maturità” (Fsa Maturity Index). L’indice si basa su 59
    indicatori, comprende 75 paesi raggruppati per reddito in cinque distinte
    categorie che rappresentano il 95% del Pil mondiale e il 79% della
    popolazione.
  8. Cfr. (2016) Laloux, F., Reinventare le organizzazioni. Come creare
    organizzazioni ispirate al prossimo stadio della consapevolezza umana,
    Guerini Next, Milano.
  9. Cfr. (2021) Celli, P. L., cit.
    10.L’intelligenza collettiva è un tipo di intelligenza basata sulla cooperazione di
    una comunità di individui, in grado di risolvere i problemi superando i limiti
    della cognizione individuale. Il concetto di intelligenza collettiva è stato
    introdotto nel 1994 da Pierre Lévy con il libro L’intelligenza collettiva. Per
    un’antologia del cyberspazio (Ed. Italiana Feltrinelli, Milano, 1996).
  10. Cfr. Indagine Aidp (Associazione per la Direzione del Personale) condotta su
    un campione di circa 600 aziende elaborate dal Centro Ricerche Aidp nel
    2021.
    12.Cfr. (2021) Celli, P. L., La vita non è uno Smart working, ESTE Libri, Milano.
    13.Cfr. Ciacia, C., “Lavoro on-site, hybrid o remoto? Come determinare l’idoneità
    allo Smart working”, Agendadigitale.eu, 11 Febbraio 2022.
    fonte: NETWORKDIGITAL360

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