GIOVANI E LAVORO – Il mercato del lavoro che si trasforma richiede politiche attive per i giovani

Il mercato del lavoro che si trasforma
richiede politiche attive per i giovani


Mentre si allarga la frontiera del lavoro povero e precario, l’Italia si
mostra debole nei programmi di inserimento e partecipazione attiva
delle nuove generazioni.


di Andrea De Tommasi
La disoccupazione giovanile ha dato segni di calo nel 2022. Il dato relativo
all’Italia, ha spiegato Eurostat, si attesta al 24% a luglio, in sostanziale
equilibrio rispetto al 23,9% di giugno, ma in calo rispetto alla rilevazione dello
scorso anno, quando le percentuali risultavano al 27,6%. Il tutto in linea con i
dati globali diffusi dall’Organizzazione internazionale del lavoro nel suo ultimo
rapporto, che però raccontano una realtà articolata: il numero di giovani
disoccupati nel mondo raggiungerà i 73 milioni nel 2022, in leggero
miglioramento rispetto al 2021 (75 milioni), ma la pandemia di Covid-19 ha
avuto effetti devastanti su una serie di categorie, “in particolare i più vulnerabili
in cerca di lavoro per la prima volta, gli abbandoni scolastici, i
neolaureati con poca esperienza e coloro che rimangono inattivi non per
scelta”. Ma torniamo all’Italia. Il Rapporto annuale pubblicato a luglio dall’Istat
dipinge un quadro non esattamente roseo. Prima di entrare nel merito,
guardiamo l’andamento complessivo degli occupati per posizione lavorativa
dal 2008 al 2021. Il grafico qui sotto ci dice che negli anni sono
progressivamente aumentati i dipendenti a tempo determinato,
“andamento che ha mostrato qualche flessione solamente nelle fasi di
congiuntura economica negativa”.
A partire degli anni Novanta i lavoratori a termine sono addirittura
raddoppiati, passando da circa 1,5 milioni (il 10% dei dipendenti e il 7%
degli occupati) a oltre 3 milioni nel 2019 (il 17% dei dipendenti e il 13% degli
occupati). Nel 2021 (ultimi dati disponibili) si attestavano a 2,9 milioni. C’è
un’altra tendenza che non può essere ignorata, ossia il progressivo aumento
della quota di occupazione di breve durata. Come mostra quest’altro
grafico, nel 2021 il 46,4% dei dipendenti a termine aveva un’occupazione di
durata pari o inferiore ai sei mesi, ed è proprio questo tipo di attività, rileva
l’Istat, “a contribuire maggiormente alla crescita del lavoro a tempo
determinato osservata nel 2021”.
C’è poi un’altra forma di lavoro che si è particolarmente diffusa, che è
l’occupazione part-time: nei primi anni Novanta coinvolgeva circa l’11% dei
lavoratori, all’inizio degli anni 2000 poco più del 12% e nel 2021 ha raggiunto il
18,6%. Questa mancanza di continuità e intensità lavorativa, nelle forme più
accentuate, viene fatta rientrare dall’Istat nella categoria di lavoro
non-standard. Ma in che misura impatta sui nostri giovani? I numeri dicono
che gli elementi di vulnerabilità lavorativa si concentrano in primo luogo
proprio sulle ragazze e i ragazzi dai 15 ai 34 anni che, in cinque casi su
dieci, sono lavoratori non-standard (due su dieci tra i 35-49enni e poco più
di uno su dieci tra gli over 50). La quota di lavoratori non-standard raggiunge il
47,2% tra le donne giovani (34,4% i coetanei uomini), mentre il 36,9 per
cento riguarda le residenti nel Mezzogiorno (22,9 per cento gli uomini). Va
detto anche che tra i giovani sotto i 35 anni è più alta l’incidenza dei
lavoratori tramite piattaforma digitale, tra i quali i cosiddetti riders: si tratta
di attività sporadiche e caratterizzate da discontinuità, la cui rilevazione
statistica presenta forti criticità. Negli ultimi anni sono state anche introdotti
percorsi formativi nelle scuole secondarie superiori, basati sulle cosiddette
“esperienze trasversali”, che presentano tuttavia alcuni aspetti critici, poiché si
sono tradotti spesso in esperienze lavorative non retribuite. A questo si
aggiunga che la proposta di legge per introdurre nuove garanzie per i
tirocinanti extracurriculari giace in un cassetto.
Vediamo ora le conseguenze sulla condizione economica dei giovani. A
partire dal 2005, rileva l’Istat, la povertà assoluta, ossia l’impossibilità di
acquisire beni e servizi per uno standard di vita minimamente accettabile, in
Italia è progressivamente cresciuta. Non in modo uniforme, però: è tre volte
più frequente tra i minori (dal 3,9 per cento del 2005 al 14,2 per cento del
2021) e una dinamica particolarmente negativa interessa i giovani tra i 18 e i
34 anni (l’incidenza ha raggiunto l’11,1% nel 2021, valore di quasi quattro
volte superiore a quello del 2005, pari al 3,1%). Per fare un raffronto,
l’incidenza si ferma al 5,3% tra gli anziani (734mila).
Questi dati sono utili per capire cosa ci aspetta. Abbiamo fortemente ridotto
le garanzie legate all’occupazione standard, con il risultato che è aumentata
la diffusione di lavori precari, in misura significativa tra le ragazze e i ragazzi,
con bassi profili professionali e redditi insufficienti. Una combinazione
che, ha osservato l’Istat, “impedisce ai più giovani di avviare una vita
autonoma e impone il ricorso a sussidi di varia natura o al mantenimento da
parte di persone esterne al nucleo familiare”.
Gli ammortizzatori sociali. Abbiamo un sistema di ammortizzatori sociali
abbastanza efficace per tutelare chi perde un impiego e si mette alla ricerca di
un nuovo lavoro? Per rispondere ci concentreremo sul documento “Questioni
di economia e finanza, Il sistema di ammortizzatori sociali in Italia: aspetti
critici nel confronto europeo”, diffuso lo scorso giugno dalla Banca d’Italia. In
sostanza, il lato positivo è il seguente: l’Italia ha “tutti gli elementi presenti
anche nelle altre principali economie europee per rispondere a shock che
colpiscano il sistema produttivo”. Il grafico a sinistra mostra che la spesa
totale per ammortizzatori sociali nel nostro Paese, pari all’1,3% del Pil nel
2019, benché inferiore al corrispondente valore per la Francia (1,9%), dove
comunque la platea di beneficiari è inferiore, è in linea con quanto osservato
in Spagna e superiore al dato registrato in Germania (0,7%). La spesa per
percettore, in termini assoluti, è inferiore alle altre economie europee, ma in
linea con Francia e Germania se rapportata al Pil pro capite (grafico a destra).
Due elementi, tuttavia, caratterizzano in senso negativo il sistema italiano. Il
primo è che nel nostro Paese rimangono “differenze e debolezze rilevanti
nell’interazione fra la politica passiva e le politiche attive”. Un esempio su
tutti è che la gestione dell’indennità di disoccupazione (NASpI) è in capo
all’Inps, mentre quella dei Centri per l’Impiego è di competenza delle Regioni.
In secondo luogo, non c’è un meccanismo di valutazione dell’attività degli
enti incaricati delle politiche attive. L’analisi della Banca d’Italia si sposta poi
sul Reddito di cittadinanza (RdC), concepito come reddito minimo garantito
ma anche come strumento di politica attiva. Secondo i dati rilasciati dall’Inps a
dicembre del 2021, in novembre i nuclei beneficiari dell’RdC erano 1,2 milioni,
interessando circa tre milioni di persone (il 64,5% risiede nel Mezzogiorno). In
sostanza, grazie all’Rdc il nostro Paese ha colmato un vuoto: in tutti i Paesi
dell’Unione Europea vi è un reddito minimo garantito. Nel caso specifico,
però, lo strumento ha alcune criticità: è meno generoso per gli stranieri e per
le famiglie numerose, specialmente con minori; non considera in modo
ottimale le differenze nel costo della vita; può comportare forti disincentivi
all’offerta di lavoro, rispetto alle misure analoghe adottate nelle principali
economie Ue, poiché il sussidio si riduce all’incremento del reddito da lavoro
secondo lo stesso ammontare.
“Il dibattito pubblico sul salario minimo, benché importante, non può essere
l’unico punto in agenda”, afferma Federico Brignacca, del Movimento
Giovani per Save the Children e coordinatore del Gruppo di lavoro
“Organizzazioni Giovanili” dell’ASviS, “c’è il tema dei Neet, i giovani tra i 15 e i
34 anni che non studiano e non lavorano, che nel 2022 sono arrivati a più di
tre milioni, ma anche lo sbilanciamento tra domanda e offerta di lavoro.
Così come non si possono trascurare le difficoltà con le quali bisogna
confrontarsi nell’avviamento al mondo del lavoro dopo gli studi. Una recente
indagine su un campione di 23mila giovani realizzata da Cnc Media e Il Sole
24 Ore ha rilevato come il 46% ritenga che il tema più importante di cui
dovrebbe occuparsi la politica sia il lavoro, seguito da ambiente (28%),
istruzione (16%) e diritti civili (10%). In questo senso credo che il fiorire di
movimenti giovanili e associazioni sia un bel messaggio per il Paese: il mondo
giovanile c’è e crede ancora in un futuro migliore”. Come interrompere questa
spirale che si traduce in frustrazione e assenza di prospettive? “È un errore
pensare di risolvere questa problematica con i bonus”, risponde Brignacca,
“occorre un piano più strutturato che tenga in considerazione la necessità di
combattere tutte le storture che in Italia sono associate al mondo del lavoro”.
Un nuovo modo di lavorare
C’è un effetto che viene dagli Stati Uniti ma riguarda anche i giovani europei:
la Generazione Z (le persone nate grosso modo tra il 1996 e il 2010) e i
Millennial (nati tra il 1981 e il 1995) stanno cercando un migliore equilibrio tra
vita privata e lavoro. Molti hanno abbandonato il proprio impiego, altri hanno
ancora intenzione di farlo, secondo un sondaggio globale condotto da
Deloitte. La retribuzione è stata la ragione principale per cui i giovani hanno
lasciato il lavoro negli ultimi due anni, seguita dalla sensazione che il posto di
lavoro fosse dannoso per la loro salute mentale e dal burnout. Circa il 46%
dei Gen Z e il 45% dei Millennial ha riferito di sentirsi esauriti a causa del
proprio ambiente di lavoro. Negli Stati Uniti, a partire dalla primavera del 2021,
sono stati registrati picchi record di dimissioni volontarie, anche se nel 2022 la
quota è in calo rispetto all’anno scorso. Ryan Roslansky, Ceo di Linkedin, ha
parlato di questo fenomeno, noto come Great Resignation, come di un
segnale cruciale di come si sta evolvendo la forza lavoro globale.
Va detto che il quinto Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale,
diffuso a marzo 2022, ha avvertito che per ora la Great Resignation in Italia è
rinviata: il 56,2% degli occupati non è propenso a lasciare il proprio lavoro,
nella convinzione che non troverebbe un impiego migliore. Si conferma però
una incertezza estrema sul futuro, che è molto aumentata negli ultimi due
anni. Del resto, in pandemia hanno vissuto condizioni di stress il 66,7% dei
lavoratori e il 71,8% dei lavoratori millennials, con percentuali intorno al 60%
trasversali alle tipologie di lavoratori. E il 73,6% dei lavoratori ha dichiarato di
avere ansia nel pensare di tornare alla vita normale, una quota che sale
all’81,4% tra i lavoratori giovani. Stando a questi dati, il Censis prevede
comunque “un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni legato
all’aumento della precarietà dei rapporti di lavoro”.
Quali risvolti possiamo vedere in questo panorama? Non tutti i giovani
avranno la sicurezza finanziaria per correre determinati rischi e re-immaginare
le proprie vite. Alcuni cambieranno lavoro, altri trasformeranno il loro secondo
lavoro, qualcosa magari di più creativo, in uno a tempo pieno. Questa
tendenza, definita in ambito anglosassone come Yolo economy (“You only
live once, si vive una volta sola”), sta già penetrando anche in Italia: una
recente ricerca della piattaforma digitale Crif ha mostrato la significativa
crescita sia delle start-up innovative (+40% nel 2021 rispetto al 2019) sia delle
imprese neocostituite con un solo dipendente (+34% rispetto al 2019).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.