EXPORT – Verso l’export intelligente: come le pmi italiane possono adottare l’Intelligenza Artificiale e con quali vantaggi

Verso l’export intelligente: come le pmi
italiane possono adottare l’IA e con quali
vantaggi


Le pmi italiane hanno alcune caratteristiche che consentono
un’adozione rapida dell’IA in azienda: dalla flessibilità organizzativa alla
coopetition dei distretti industriali, tutti i vantaggi e gli impatti di una
rivoluzione necessaria
Stefano da Empoli
presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)
Luca Gatto
Head of Commercial Initiatives – SACE
Il sistema produttivo italiano ha dato ampia prova di innegabile resilienza,
testimoniata anche in tempi di pandemia, in particolare nella manifattura, in
momenti storici differenti.
Ma ci sono altre caratteristiche che potrebbero consentire alle imprese italiane
di presentarsi all’appuntamento con l’Intelligenza Artificiale in migliori
condizioni di quello che comunemente si pensa:
● la flessibilità organizzativa,
● la personalizzazione del prodotto,
● la centralità del B2B,
● la “co-opetition” tipica dei distretti industriali
● la crescente possibilità di accedere a tecnologie sofisticate come l’IA a
costi ridotti.
Vediamole insieme.
La rivoluzione dell’IA nei modelli aziendali
L’impatto dell’intelligenza artificiale (IA) sulle imprese sarà sempre più
rilevante nei prossimi anni: genererà una vera e propria rivoluzione dei modelli
aziendali, sia nei processi interni, sia nei rapporti con clienti e fornitori.
Rispetto alle attività di backoffice, l’IA consente per esempio alle aziende di
gestire meglio la liquidità, ottimizzare i rischi e cogliere i cambiamenti più
prontamente che in passato. Nel caso della manifattura, la manutenzione
predittiva, oggi una delle applicazioni IA di maggior successo in Italia, già
permette di programmare più efficientemente revisioni fermi di impianti e
macchinari. Nei rapporti con l’esterno, grazie all’IA le imprese potranno
conoscere meglio e in anticipo i gusti dei propri clienti, differenziando
conseguentemente il prodotto.
Spesso si osserva che di fronte alle tante potenzialità rappresentate dall’IA,
l’Italia sia decisamente in ritardo, per numero di brevetti, aziende e startup
leader nello sviluppo di tecnologie.
Un ritardo dovuto ai limitati investimenti pubblici e privati in R&S, alla
insufficiente dimensione e alla parcellizzazione del trasferimento tecnologico,
agli ostacoli ai processi di crescita di startup e PMI innovative, al saldo
negativo dei flussi di capitale umano qualificato verso l’estero.
Secondo l’ultimo rapporto annuale dell’Osservatorio Artificial Intelligence della
School of Management del Politecnico di Milano, presentato lo scorso
febbraio, il giro d’affari annuale del mercato italiano, pur raddoppiato
nell’ultimo biennio, raggiunge appena i 380 milioni di euro.
A fronte di importanti colli di bottiglia nell’accesso ai dati e soprattutto nella
capacità umana e finanziaria di utilizzarli, le tecnologie AI sono al momento
appannaggio, con troppe poche lodevoli eccezioni, delle imprese di
dimensione maggiore. Se tra le grandi imprese del campione selezionato dal
Politecnico, ben il 59% ha avviato almeno una progettualità IA, nel caso delle
PMI ci si ferma al 6% (di cui il 4% semplici sperimentazioni e soltanto il 2%
progetti a regime).
Eppure, accanto a tante criticità di sistema, ci sono alcuni fattori che
potrebbero porre l’Italia in una posizione di vantaggio sull’IA, quantomeno
nella sua adozione, rispetto a tanti altri Paesi. E in particolare le PMI vocate
all’export potrebbero esserne le principali beneficiarie.
Il primo driver delle pmi per l’IA: la flessibilità organizzativa
La principale sfida per le aziende che vogliono adottare l’IA non è tanto
tecnologica e tutto sommato neppure economica, neanche per quelle piccole
e medie che costituiscono la gran parte dell’universo delle imprese italiane.
La prima difficoltà da affrontare è di carattere organizzativo. Secondo uno
studio di Boston Consulting (2018), se le imprese vogliono trarre reali benefici
dall’IA, devono puntare soprattutto su due elementi: velocità decisionale e
team orizzontali rispetto alle diverse divisioni dell’azienda. Caratteristiche che
si addicono poco, secondo i risultati della ricerca, al modello aziendale
tedesco, criticato per la rigidità e l’eccessiva compartimentalizzazione.
Per cultura e dimensione, almeno sulla carta, le aziende italiane possono
contare sul vantaggio competitivo di avere una maggiore flessibilità interna, in
particolare le PMI, che dispongono di una struttura burocratica più snella. In
questo senso sono teoricamente in grado di adottare un nuovo modello
aziendale in tempi molto più rapidi e con modalità trasversali alle diverse
funzioni.
La condizione è che, questioni finanziarie a parte, si superino due problemi
rilevanti, specie per organizzazioni più piccole: competenze digitali
quantomeno di base del top management e procedure interne adeguate ad
assicurare sia un processo top-down che uno bottom-up di execution.
Il secondo driver delle pmi: la personalizzazione del prodotto
Una parte importante del vantaggio competitivo sviluppato da molte imprese
italiane, specie (ma non solo) tra quelle operanti nei beni della casa e della
persona, è stato negli ultimi quarant’anni quello di rispondere in maniera
efficace a una crescente domanda di varietà.
Non essendo in grado di competere sulle produzioni di massa, che
richiedevano un volume di investimenti e una scala produttiva nonché, a valle,
un’organizzazione distributiva e di marketing fuori dalla portata della
stragrande maggioranza delle imprese, per avere successo la tipica azienda
italiana si è perfezionata sulle cosiddette «economie di gamma». Ossia su
numerose e sofisticate variazioni di uno stesso prodotto o di una base ristretta
di beni.
Con l’aiuto della tecnologia, che abbatterà sempre di più i costi di sviluppo, è
prevedibile che si possa assistere a una sempre maggiore differenziazione
della qualità del prodotto a prezzi inferiori, dunque allargando il numero dei
potenziali acquirenti di beni personalizzati.
Naturalmente, le nuove tecnologie potrebbero anche rendere più facile ad
aziende non italiane differenziare il proprio prodotto. Tuttavia, escludendo che
le macchine possano sostituirsi interamente alle persone, è difficile che questo
vantaggio possa dissiparsi, almeno nel breve periodo.
Il terzo driver: la centralità del B2B
Quando pensiamo alle possibili applicazioni dell’IA, ci vengono in mente
soprattutto quelle rivolte ai consumatori. O tutt’al più ai pazienti (nella sanità) o
ai cittadini (servizi pubblici). Ma in queste aree di maggior contatto con le
persone, si nascondono anche le principali insidie, legate ad esempio alla
tutela dei dati personali.
È anche questo uno dei motivi per i quali, secondo alcune stime (McKinsey
Global Institute, 2018), i due terzi dei benefici economici dell’IA saranno fruiti
nel canale B2B, dove si posiziona la maggioranza delle imprese italiane,
soprattutto perché si richiedono minori investimenti sia nella R&S a monte sia
nella distribuzione commerciale e nel marketing a valle.
Dunque, ancora una volta un fattore di debolezza iniziale potrebbe
trasformarsi in un’opportunità di intercettare al meglio la rivoluzione
incombente.
Il quarto driver: la co-opetition tipica del distretto industriale
Sempre di più l’innovazione viene sviluppata in un contesto di «co-opetition»,
cioè un misto di cooperazione e concorrenza (in inglese competition). Le
imprese si fanno concorrenza tra loro ma allo stesso tempo collaborano
rispetto ad alcuni obiettivi comuni.
Pur considerando le profonde differenze tra i distretti industriali, la forma più
tipica di collaborazione nel modello italiano, e gli ecosistemi dell’innovazione
nei quali vengono sviluppate le tecnologie IA, la collaborazione tra aziende
anche in competizione tra loro è nel DNA del sistema produttivo nazionale, più
che in altre economie. Sempre che si sappiano superare individualismi ormai
fuori dalla storia e da una visione di lungo termine.
Il quinto driver: costi di accesso al tech alla portata
A determinare l’accelerazione verso l’IA di questo ultimo decennio, dopo le
molte false partenze e delusioni degli ultimi sessant’anni, sono stati due fattori
in particolare: l’aumento esponenziale della capacità di calcolo dei computer e
la possibilità di disporre di enormi quantità di dati. Elementi che hanno un
risvolto non solo tecnologico ma anche, e per certi versi soprattutto,
economico.
Il fatto che la stessa potenza di calcolo contenuta venti anni fa in un enorme
super-computer sia oggi racchiusa in un oggetto della grandezza di uno
smartphone ha l’evidente risvolto nella differenza del costo necessario ad
acquisirla e a gestirla. Stessa cosa per quanto riguarda i dati. La disponibilità
di maggiori quantità di informazioni è andata di pari passo con l’abbattimento
dei loro costi di produzione, grazie alla diminuzione del prezzo dei sensori e
alla digitalizzazione dei processi.
Naturalmente, la radicale diminuzione dei costi di accesso non annulla la
differenza tra le imprese. Alcune, grazie ai budget di cui possono disporre,
continueranno ad avere risorse enormi da investire, per esempio nei
super-computer. Sono tuttavia relativamente poche le aziende che hanno non
solo la scala ma anche queste necessità. La stragrande maggioranza può fare
moltissimo con poco. Grazie anche alla flessibilità del cloud computing, che
oggi appare sempre di più come la principale porta d’ingresso per i tool IA.
Gli impatti dell’IA sull’export
L’IA può avere diversi impatti positivi lungo la export value chain delle aziende
diventando un vantaggio competitivo in alcune fasi e per specifici settori. In
ordine temporale nel processo di internazionalizzazione:
Analisi di mercato
Le aziende scelgono i mercati target in funzione di informazioni che
riguardano la domanda dei beni, la concorrenza, i canali ed il contesto
geopolitico. Stiamo parlando di una mole importante di informazioni, spesso
disaggregate (es i siti della concorrenza).
L’IA può riuscire a dare una visione di sintesi utile nel supportare il processo
decisionale, dove può anche suggerire eventuali Paesi Target. In questa
direzione ci sono già alcuni esempi interessanti in Italia, in particolare
Matchplat che offre ricerche di mercato basate sull’IA. Matchplat da un lato
utilizza un database di oltre 400 milioni di aziende in 196 Paesi e dall’altro
analizza in automatico la presenza on line dei competitors;
Strategia di mercato
Dopo aver individuato i paesi target l’azienda sceglie la strategia di ingresso.
A seconda del settore, B2C o B2B, ci sono diverse alternative sia offline (es.
distributori, agenti, venditori) che online (es. eCommerce), dirette o indirette e
più o meno lunghe (si va dal venditore al dettagliante, passando attraverso la
GDO).
Le scelte sono sempre complesse, anche perché una volta prese possono
immobilizzare l’azienda almeno nel breve periodo. L’IA potrebbe aiutare,
vedendo da un lato cosa fa la concorrenza e dall’altro incrociando le
caratteristiche dell’azienda. Al momento il mercato non offre soluzioni ma non
tarderanno ad arrivare;
Modello di business
Lo step successivo è rappresentato dall’adeguamento del modello di
business, in particolare del sistema d’offerta, dove l’IA potrebbe essere
utilizzata per tutte le leve del MKTG. Iniziano ad esserci realtà molto
interessanti, in particolare Vedrai (nata sotto la pandemia), che utilizza l’IA su
diversi verticali.
Una delle scelte che l’export manager deve prendere è quello di definire il
giusto prezzo. Premoneo (Gruppo Vedrai) sviluppa strategie di pricing
considerando le caratteristiche dell’azienda ed il mercato. Nel B2B aspetto
strategico nella scelta del cliente è l’affidabilità del prodotto. Offrire soluzioni
(macchinari) con software che hanno la capacità di prevenire improvvisi
malfunzionamenti o guasti non solo aumentano la soddisfazione ma anche la
fidelizzazione. Fermai (sempre gruppo Vedrai) ha realizzato soluzioni che
consentono di ottimizzare la strategia di manutenzione.
Export Business Plan
Rappresenta il documento di visione e sintesi del progetto di
internazionalizzazione. Uno degli aspetti più delicati riguarda le stime di
vendita nei vari mercati. Spesso il processo è bottom up, coinvolgendo la rete
commerciale. L’IA può supportare l’export manager fornendo modelli
forecasting utili non solo per prendere decisioni ma anche per confrontarli con
le stime dei commerciali. La stessa Premoneo fornisce questi modelli con
segmentazione della clientela.
Day by day/monitoraggio/fine tuning
La fase successiva è rappresentata da una doppia attività, da una parte il day
by day con lo sviluppo commerciale, lavorando anche a contatto dell’azienda
che si deve adeguare al progetto di internazionalizzazione, e dall’altra il
monitoraggio dei risultati con eventuali azioni correttive laddove ci siano
scostamenti rilevanti.
L’IA può supportare l’export manager in entrambe le fasi, anche se vediamo
maggiore utilità nella seconda. Chatbot e virtual assistant potrebbero essere
utilizzati nello sviluppo della relazione (o parte di essa) ma poco si concilia,
almeno al momento, con la tipologia di relazione che l’azienda vuole
sviluppare con il cliente all’estero.
Possono essere più interessanti sistemi di recommendation, anche se
bisogna prestare attenzione alla customer experience. Mentre l’analisi
approfondita dei numeri, utilizzando l’intelligent data processing, potrebbe
portare ad individuare dei trend, che, se intercettati precocemente, possono
spingere l’azienda a modificare la propria offerta anche prima della
concorrenza e quindi generando un vantaggio competitivo.
Conclusioni
L’IA può rappresentare senz’altro una leva fondamentale per la competitività
delle aziende italiane. Con un potenziale, in prospettiva, praticamente illimitato
per quelle che esportano.
Ci sono, tuttavia, una serie di aspetti che richiedono tempo e costanza, al fine
di un’adozione massiva, in particolare per le PMI. Con tre elementi decisivi: a
livello micro, cambiamento organizzativo e rafforzamento delle competenze; a
livello macro, impegno delle istituzioni e della rappresentanza di impresa a
fornire tutto il supporto necessario per l’upgrade richiesto.
La condizione preliminare deve necessariamente essere la consapevolezza
da parte del top management delle imprese di ogni dimensione e settore che il
proprio futuro passi per l’IA e più in generale la trasformazione digitale.
Deve dunque esserci da parte dei vertici aziendali la volontà di mettere in
discussione il modus operandi e la struttura stessa delle aziende, aprendosi al
cambiamento ma al contempo gestendolo pro-attivamente. Perché questo
processo possa funzionare, c’è bisogno di competenze di base da parte del
top management, assistite chiaramente da specialisti interni o esterni
all’impresa. In molti casi, nelle aziende familiari questo turnaround
organizzativo dovrà accompagnarsi a un passaggio generazionale o
quantomeno a una devoluzione sostanziale dei poteri agli esponenti più
giovani e/o più qualificati della proprietà (o, in alternativa, a una
managerializzazione più spinta del modello d’impresa).
Questo processo di enorme acquisizione di competenze, che deve partire dai
vertici e diffondersi in tutto l’organigramma, non può essere demandato solo
alle aziende ma deve essere supportato sia in termini di risorse finanziarie che
umane, attraverso strutture specializzate, dall’azione congiunta delle
istituzioni, a partire da quelle nazionali e regionali, e dei corpi intermedi, con in
prima linea le associazioni datoriali. Solo se lo sforzo congiunto
pubblico-privato sarà convergente, l’obiettivo potrà essere raggiunto.
Rendendo l’export italiano più intelligente di prima e, possibilmente, anche di
quello dei principali competitor del made in Italy.
fonte: AGENDA DIGITALE

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