ANALISI E COMMENTI – La sostenibile profondità chiamata Made in Italy

La sostenibile profondità chiamata Made
in Italy


Elena Dellapiana ha ricostruito con meticolosità la nascita e
l’inscindibile intreccio tra cultura del progetto e immagine della nazione.
Un testo fondamentale per capire le nostre radici
di Stefano Salis
Adesso che la frasetta «Made in Italy» – una parolina magica che si porta
bene in tutte le stagioni e serve talora ad aprire impensabili porte, e mercati –
ha fatto il suo trionfale ingresso nella dicitura ufficiale di un ministero
nevralgico come il Mise, ribattezzato appunto in onore delle «Imprese e del
Made in Italy» (con soddisfazione, immaginiamo, dei radical chic), abbiamo –
per felice coincidenza – finalmente un manuale, preciso, essenziale e
totalmente condivisibile nella selezione di cosa è significativo e di come si è
storicamente prodotto questo sintagma, che occorre prima di tutto
raccomandarne lo studio (non la lettura: lo studio!) a tutti coloro che di tale
parola-valigia si riempiono la bocca a più non posso, spesso a sproposito e
ciò che ancor peggio, circondandosi poi di oggetti e arredi e prodotti che non
solo non sono all’altezza della parola, ma talvolta ne sono proprio il contrario,
o la parodia.
Sto parlando dell’importante volume di Elena Dellapiana, Il design e
l’invenzione del Made in Italy, che rinnova al meglio la tradizione saggistica
della PBE Einaudi (pagg. 320, € 25). L’autrice, docente al Politecnico di
Torino, si è presa la briga di indagare, verificandolo sul campo degli studi (e
cioè nei documenti provenienti dalle esposizioni internazionali e nel sistema
del design che, nel Novecento, ha contato più di tutto, insieme allo sport, alla
moda e al cibo, per diffondere la nostra immagine all’estero), come e perché
la nostra specificità nazionale è riuscita a diventare un marchio che va ben
oltre il singolo, pur eccezionale e riuscito, prodotto.
E la foto di copertina è già significativa: evoca la tradizione della classicità
latina (l’arco romano sullo sfondo) con la “modernità” della Vespa che irrompe,
nella sua solare voglia di mettersi in viaggio, negli anni 50, e che cambia, per
sempre, la percezione e lo status dell’Italia nel mondo. Non c’è dubbio, infatti,
che esista una tale specificità nazionale e che, sono parole di Dellapiana,
«corrisponde anche a una sorta di mitopoiesi degli atti creativi che ha portato
nel corso del tempo a produrre e far circolare, oltre che opere d’arte, anche
piatti, vasi, tessuti, abiti, automobili, scooter, cibi e bevande. Oggetti della
quotidianità divenuti vettori non solo di valori estetici, ma anche di messaggi
evocativi e di stili di vita (l’Italian way of life, la «dolce vita», ecc.). Tutto ciò ha
consentito di far coincidere cose, merci, beni con l’essenza stessa di una
nazione e con la sua tradizione artistica e culturale, generando “icone” del
progetto italiano, a loro volta inneschi sia di un fiorentissimo mercato sia di
uno sfrenato collezionismo». Ci siamo. Perché è così: questi oggetti e il loro
“sistema” complessivo (ricordando Baudrillard e Bachelard), ben lungi dalle
vacue scorciatoie dello storytelling, si sono costituiti dapprima come una
sostanza reale, verificabile (forma-funzione-dettato estetico inscindibili) e poi
sono diventati anche un portato emozionale, che altri Paesi non hanno mai
avuto (ovvio che esiste tradizione manifatturiera dappertutto, ma chi ha mai
sentito parlare di specificità del Made in Romania o del Made in Belgio, con
tutto il rispetto: e sono solo due Stati a caso).
Ma non solo: perché se Dellapiana va in fondo alla questione, individuando
addirittura nel Rinascimento il momento nel quale, forse per la prima volta, si
è percepita una linea progettuale italiana (senza che l’Italia di fatto esistesse),
è poi nel Novecento che gli oggetti italiani diventano un unicum vero e proprio.
Mischiano, come per miracolo, e difficilmente spiegabile, l’altissima tradizione
artigianale con la voglia di sperimentazione. Se nell’Expo di Chicago, fine
Ottocento, l’immagine dell’Italia erano ancora le gondole veneziane (cosa c’è
di più folkloristico?), già negli anni 20 (e grazie a fenomeni come la Scuola di
Monza, le esposizioni parigine anche targate dall’estetica fascista, il futurismo,
artistico e produttivo), la situazione era diversa, di estremo interesse e
rilancio. La prova sono, per esempio, le Triennali, fulcro e vetrina della nostra
inventiva. Ciò che, nel secondo dopoguerra, poi, consente il dilagare del modo
progettuale e produttivo italiano, il cosiddetto «genio»: sarebbe inutile qui
elencare le icone, ma dalla Superleggera di Gio Ponti (un vero deus ex
machina per la nostra immagine globale), alla creatività brianzola, dalla Arco
all’Olivetti, fino all’estremo Memphis o, appunto, alla Vespa, l’Italia ha marcato
il campo: ed è diventata ciò che è (o, forse, ciò che era). Con momenti
salienti, come lo showroom Olivetti a New York (quando Nivola e BBPR
mostrarono che l’Italia era design preistorico e futuro) fino alla memorabile
mostra al Moma, curata da Ambasz, di cui ricorrono i 50 anni, che, si spera,
non siano passati invano.
«Il Made in Italy è», dagli anni 80 del secolo scorso, scrive in maniera molto
significativa Dellapiana, «un brand globale e globalmente riconosciuto, che
porta indubbi effetti positivi, ma che tende anche a ingabbiare progettisti e
mercato in un cliché ultrasperimentato, da cui sarà molto difficile affrancarsi».
La scommessa, per tutto il sistema del design, dell’industria, e della nuova
cultura italiana parte – purtroppo e per fortuna – da qui. Ora sì, che ci vuole
genio italico.
fonte: IL SOLE 24 ORE

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