ANALISI E COMMENTI – La modernità del pensiero keynesiano e la prospettiva elettorale

La modernità del pensiero keynesiano e
la prospettiva elettorale


di Pasquale Lucio Scandizzo
La società civile è strutturalmente incapace di superare i conflitti logici e
materiali tra interesse individuale e comune, perché è corrotta dalla sua
stessa composizione. Il risultato è il fallimento etico (la madre di tutti i
fallimenti del mercato e dello Stato), quella famigerata “povertà in mezzo
all’abbondanza” che riguarda le persone, ma anche l’ambiente e, in
ultima analisi, la stessa sopravvivenza dell’umanità
La prospettiva elettorale in questo strano agosto si presenta inquietante, ma,
allo stesso tempo, nel ricorso a una procedura codificata e condivisa e in
assenza di spinte alla violenza, presenta anche degli aspetti rassicuranti.
Tuttavia, i venti di guerra calda e fredda e la pandemia ancora in corso
mantengono un velo di incertezza sul futuro che si intreccia in modo
imprevedibile con le sorti economiche e politiche del nostro Paese e del
mondo intero. Siamo in gran parte ancora all’interno di convulsioni
populistiche nelle democrazie liberali, mentre i paesi con regimi totalitari
appaiono, almeno in superficie, molto più stabili. Questa differenza è in parte
la conseguenza e in parte la causa dei fallimenti sociali della globalizzazione.
Essa è preoccupante perché, stendendo un ulteriore velo di incertezza sulle
alleanze e le lealtà internazionali, contribuisce a generare turbolenze
all’interno e all’esterno del nostro Paese.
Per valutare le opzioni presentate dai diversi partiti, è bene ricordare che la
rivoluzione keynesiana, invocata in modo diverso esplicito o implicito da quasi
tutti i programmi elettorali, non è limitata alle grandezze aggregate, o al
tentativo di utilizzare lo Stato per spezzare il circolo vizioso della
disoccupazione. Essa piuttosto nasce da un paradosso a lungo ignorato dagli
economisti: il fatto che il mercato si proietta naturalmente nella cosiddetta
società civile, ma che questa viene “corrotta” proprio dalle esigenze del
mercato, nel senso che gli interessi individuali le impediscono di generare
istituzioni capaci di tenere conto adeguatamente del bene comune.
I conflitti che risultano da questa contraddizione riguardano l’essenza stessa
del governo di una società giusta, e consistono in un contrasto spesso
sotterraneo, ma continuo, tra incentivi individuali e obiettivi sociali.
Nell’organizzazione dello Stato, ciò porta alla frammentazione istituzionale, un
tentativo di recupero di potere da parte degli interessi individuali minacciati
dall’emergenza della autorità pubblica, che spezza la catena di comando e
ribalta la struttura sociale lungo una dimensione di conflittualità e inefficacia.
Nelle transazioni commerciali, la ricerca del profitto, in mancanza di un quadro
regolatorio efficace, spinge i mercati verso allocazioni inique e fallimenti di
contratti privati e sociali.
La società civile è quindi strutturalmente incapace di superare i conflitti logici e
materiali, tra interesse individuale e comune, perché è corrotta dalla sua
stessa composizione (in termini moderni si direbbe “ dalla sua
microfondazione”). Il risultato è il fallimento etico (la madre di tutti i fallimenti
del mercato e dello Stato), quella famigerata “povertà in mezzo
all’abbondanza” che riguarda le persone, ma anche l’ambiente e, in ultima
analisi, come hanno scritto sia Hegel che Keynes, la stessa sopravvivenza
dell’umanità.
Da questa constatazione discende la mancanza di fiducia di Keynes (ma
anche keynesiana in senso lato) nella capacità di auto-risoluzione delle
circostanze economiche, che non solo non possono autoregolarsi, ma il cui
affidamento stesso alla volontà dei governi, democratici o non, riposa sulla
illusione che una semplice divisione di compiti tra pubblico e privato possano
sanare una contraddizione strutturale. Si tratta di una contraddizione
Hobbesiana, per cui solo una forma accettabile di Leviatano può essere
efficace. Si tratta tuttavia anche della conseguente ansietà, del tutto speculare
rispetto alle speranze illuministiche, che nasce dalla paura che la
riconciliazione delle pulsioni individuali e dell’etica collettiva sia di fatto
impossibile.
In effetti, la ragione keynesiana rilancia lo Stato come potere razionale ultimo
e imprescindibile, ma , allo stesso tempo, dispiega uno scetticismo
fondamentale nei suoi confronti e, in particolare, nei confronti di tutti i modi
popolari (e populisti) della politica. Quest’ultima, infatti, non si può che ritenere
un tentativo di rinegoziare il contratto sociale, continuamente minacciato, ma
senza riuscire a sottrarsi alle stesse contraddizioni che ne insidiano la
esistenza. Tali contraddizioni, infatti sono il risultato degli interessi e delle
rivendicazioni che per definizione sono un prodotto delle dinamiche interne
della società civile. Lo Stato e le sue diverse incarnazioni, anche nella ricerca
convulsa di istituzioni e di riforme più adeguate, combatte sempre con se
stesso, come l’espressione ultima di una società che non riesce a superare i
propri confini etici e le pulsioni individuali.
La relazione tra le macro-variabili, quali la disoccupazione e la povertà, e le
variabili individuali, quali i risultati economici dei singoli o delle famiglie è
quindi segnata dalla dicotomia tra interessi individuali e bene comune. Essa
identifica i limiti ineludibili della società civile, in particolare, la sua continua
incapacità, ma anche estrema esigenza ad autoregolarsi, pena la perdita
dell’ordine sociale e il pericolo che la comunità, o parte di essa, discenda in
uno “stato di natura” catastrofico. Il pensiero keynesiano si sviluppa intorno a
questa minaccia che discende dalla paura di trascurare la vera sfida della
politica, considerando come naturali ed acquisite realtà complesse e difficili da
governare. In particolare, né lo Stato né il mercato, e, più in generale, né la
civiltà né il capitalismo sono naturali; se lasciate ad autoregolarsi, le cose non
si prenderanno cura di sé stesse. Keynes scrisse notoriamente che “nel lungo
periodo siamo tutti morti”.
Le ragioni della incapacità di governo della società civile sono anche alla base
della critica keynesiana dello Stato liberale, almeno inteso come emanazione
dell’economia classica e il keynesianismo, come corrente più ampia e
successiva di pensiero, è in continuità con questa critica, di cui scopre sempre
nuove intuizioni storiche. Il cosiddetto Stato liberale, sembra suggerire l’analisi
keynesiana, è in balia di individualismi e spinte contrapposte che ne
impediscono una effettiva azione di governo e portano al disordine e al caos
sociale. Ma esso finisce anche per incorporare tratti individuali deteriori sotto
forma di emozioni collettive, che alimentano l’umiliazione o il risentimento e
perpetuano uno stato di conflitto permanente tra le diverse nazioni ed orrori
simili, anche se di origine diversa di rivoluzione e reazione. In Le
conseguenze economiche della pace (1919), Keynes scrisse: “Se miriamo
all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oserei dire, non
zoppicherà. Nulla può quindi ritardare a lungo le forze della Reazione e le
disperate convulsioni della Rivoluzione, davanti alle quali gli orrori dell’ultima
guerra tedesca svaniranno nel nulla, e che distruggeranno, chiunque sia
vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione.”
Si tratta sempre del richiamo Hobbesiano, ma come dovremmo avere
imparato dall’esperienza, quando questo richiamo è ignorato per troppo
tempo, l’ansia interventista cresce e assume linee sempre più drammatiche di
crescente estremismo, che finiscono per configurare fallimenti alternativi, tra
rivoluzione e reazione, molto più dannosi, dell’azione collettiva. E’ chiaro che il
keynesianismo è stato ed è un modo per ricercare una “terza via”, quella di
democrazie allo stesso tempo efficienti e liberali, ma che questa via è difficile
da tracciare e sempre stretta e spesso impraticabile. Il problema più difficile
da affrontare è tuttavia dovuto all’impotenza della politica, perché questa è
inquinata da una deriva sociale che a sua volta dipende dalla sua incapacità
di farsene carico. Il “problema economico”, la “questione sociale” o, più
prosaicamente, “la pressione della strada” sono all’origine del peccato
originale di quella che Keynes chiamava una “comunità moderna”, in cui la
politica è distorta dall’incapacità di affrontare fatti apparentemente ineluttabili
quali la povertà e l’ingiustizia.
Il problema dell’ambiente rientra in questa contraddizione, nel senso che esso
manifesta una ulteriore forma di povertà e di ingiustizia, e che minaccia
anch’esso il tessuto della società civile. Più in generale, nelle fasi più critiche,
ma anche meno drammatiche della vita di una società, l’ansia Hobbesiana si
placa e prevale lo spirito del laisser faire. In queste fasi, il fallimento del
mercato e dello Stato si manifestano entrambi come una carenza di capacità
di azione: autoregolazione nel caso del mercato e governo da parte dello
Stato. Lo Stato recede su posizioni minimaliste e diventa troppo timido per
assumere ruoli efficaci di governo, regredendo a funzioni di mera regolazione
procedurale. La carenza di azione collettiva si accumula però sotto forma di
risentimento, e di dimensioni emotive e corporee che generano e supportano
il desiderio di agire per la politica e il processo decisionale.
La povertà e la disoccupazione sembrano la piaga insanabile della società
moderna, che si accompagna alla massiccia sottoutilizzazione delle risorse
economiche, che va dagli edifici alle macchine e agli stock di materie prime.
Questa sottoutilizzazione è un aspetto di un problema più ampio, quello del
disallineamento dei prezzi dei beni e servizi da quelli dei beni capitali, che si
manifesta in un rapporto spesso convulso tra l’economia reale e la finanza e
nella espansione irrazionale e insostenibile delle economie urbane.
L’urbanizzazione sempre più intensa e selvaggia del pianeta è una
manifestazione dello squilibrio fondamentale tra bisogni e consumi, e della
incapacità di regolare i risparmi che discende dal fallimento congiunto del
mercato e dello stato. La crescita della popolazione mondiale è sempre più
concentrata in aree che a loro volta concentrano l’accumulazione di capitale
fisico, sotto forma di infrastrutture e di strutture abitative e la logistica della vita
quotidiana. Questa a sua volta comporta enormi squilibri territoriali in termini
di trasporti, magazzinaggi, reti di distribuzione, uffici e residenze.
L’esperienza recente della pandemia ha mostrato come le abitazioni dei centri
urbani possano divenire delle trappole, che è necessario chiudere per
impedire la diffusione delle infezioni, ma che allo stesso tempo definiscono la
propria funzione come luoghi di esistenza confinata e dipendente, che
esercitano una pressione sempre più devastante sulla natura. La stessa
esperienza ha dimostrato come sia possibile, con le tecnologie attuali, attivare
forme di lavoro a distanza che permettono di aggirare l’apparente necessità di
convivere e lavorare in spazi ristretti, affrontando ogni giorno forme costose e
sempre più inaccettabili di pendolarismo tra periferie e centri urbani.
La ricostruzione del territorio è la priorità dopo la pandemia, perché
quest’ultima ha mostrato come le economie di agglomerazione siano fonte di
rischi e di costi sociali latenti e come esse siano controbilanciate da
esternalità negative drammatiche nel campo della salute e dell’ambiente. Un
nuovo modello di insediamento diffuso, e di sviluppo sostenibile è possibile.
Questo modello è tutto da scoprire, e poco presente nei programmi elettorali e
nel corrente dibattito politico. Alcune grandi linee, già presenti, almeno in
nuce, nel PNRR, si possono tuttavia identificare. Queste sono: infrastrutture
leggere e “smart”, una gestione consapevole e continua da parte delle
comunità locali delle risorse naturali e della salute, una rete di monitoraggio e
controllo, integrata con il tessuto dei beni culturali e con le nuove tecnologie di
comunicazione. Come ha dimostrato la recente legislazione bi-partisan
appena approvata negli Stati Uniti, è su questi temi che è necessario
rilanciare il dibattito politico e raccogliere un consenso sociale non meramente
di facciata e non basato su slogan apodittici o su improbabili palingenesi
fiscali.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.