ANALISI E COMMENTI – Declino demografico, salari e formazione :come il lavoro influenza la crescita

Declino demografico, salari e formazione:
come il lavoro influenza la crescita


di Rachele Pozzato
I dati a cavallo dell’anno appena concluso e dei primi giorni del 2023 indicano
per il lavoro una prospettiva positiva e in crescita. L’Istat, infatti, a dicembre
registrava un tasso occupazionale sopra il 60%, come non capitava da
decenni in Italia, in leggera flessione solo con l’inizio di gennaio. Anche i dati
rilasciati da Anpal e Unioncamere a inizio anno segnano una via di ripresa del
mercato del lavoro, con una domanda tornata ai livelli pre-pandemici con circa
500mila lavoratori ricercati dalle imprese, il 14% in più rispetto al gennaio del

  1. Su una prospettiva trimestrale, invece, le previsioni parlano di 1,3
    milioni di lavoratori, specialmente nel settore manifatturiero, del turismo e dei
    servizi.
    Sul piano internazionale – A ostacolare e gettare incertezza su queste stime,
    tuttavia, non ci sono solo le questioni internazionali che negli ultimi mesi
    hanno generato una generale condizione di instabilità macroeconomica,
    comune a tutta la zona euro e non solo, come inflazione, costo delle materie
    prime o Pil. A pesare sui possibili esiti, in campo di lavoro, ci sono anche
    variabili tutte italiane, che rischiano di frenare con forza le dinamiche
    lavorative in movimento, insieme a un complessivo sviluppo economico e
    sociale dei prossimi anni.
    L’influenza del gap demografico – Come ormai noto, generando ripercussioni
    in diversi ambiti, una prima grande criticità è rappresentata dal declino
    demografico del nostro Paese. L’Istat stima che nel 2050 il rapporto tra
    pensionati e attivi sarà di 1:1. Uno squilibrio che già oggi mette a rischio la
    sostenibilità del sistema previdenziale. A confermare il mismatch, ossia una
    domanda e un’offerta di lavoro non allineate, anche le previsioni Unioncamere
    e Anpal: il fenomeno è cresciuto dal 38,6% dal 45,6% dello scorso anno. Circa
    il 30% delle imprese attribuisce il basso numero di assunzioni a una
    mancanza di candidati, che solo in parte, per il 13,5% dei casi, si spiega con
    un’inadeguata formazione per le posizioni aperte. Un fronte, questo del
    mismatch formativo, cui cercano di rimediare diverse tra le riforme finanziate
    dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, come il programma Garanzia
    occupabilità lavoratori che ha l’obiettivo di formare, entro il 2025, circa 800mila
    lavoratori.
    Il divario salariale tra le generazioni – A mettere in discussione l’efficacia di
    una revisione complessiva e pregnante del sistema di formazione, si presenta
    però una dinamica salariale debole e povera di risorse, con una perdita di
    salario reale negli ultimi trent’anni. Le ultime generazioni, a fronte di
    competenze e formazione mediamente più consistenti, guadagnano dal 17 al
    34% in meno rispetto ai genitori, a seconda delle posizioni. Un’aspettativa
    decrescente per i giovani italiani che impatta non solo sul mercato del lavoro,
    ma sulla società tutta. Un freno sicuramente importante per il recupero di un
    equilibrio, dopo i mesi di pandemia e insicurezze globali a causa di guerra e
    crisi, e che rischia di rallentare anche la crescita dei prossimi anni. Un
    panorama, dunque, che spinge i vertici a ripensare buone politiche pubbliche
    e una nuova organizzazione del lavoro, alla luce delle dinamiche a livello
    territoriale e prettamente nazionale, oltre che a quelle sul piano
    macroeconomico, comuni in generale a tutto l’Occidente.

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