ANALISI E COMMENTI – Asse franco-tedesco 4.0

Asse franco-tedesco 4.0


di Beda Romano
Forse è dai tempi della nascita di Airbus, nel 1969, che di politica industriale
non si parla in Europa in modo così concreto e attuale. Ai tempi, spuntava
all’orizzonte la fine del boom economico del dopoguerra. Il ritardo europeo
nel settore aeronautico faceva impallidire d’imbarazzo e di preoccupazione
gli alleati europei, dinanzi al successo mondiale di Boeing, Lockheed Martin e
McDonnell Douglas. Francia e Germania decidevano di collaborare nella
costruzione di nuovi “autobus dell’aria”, con l’aiuto prima della Spagna poi
del Regno Unito. Diceva François Mitterrand nel 1987, in occasione del lancio
dell’A320: “Airbus è ora in grado di competere con chiunque nel mondo, e
persino di vincere”. L’uomo politico francese aveva ragione. Alla fabbricazione
di un velivolo nato franco-tedesco contribuiscono oggi migliaia di
imprese in tutto il mondo, di cui 300 italiane.
Due modelli economici diversi
La perdurante incertezza economica, le conseguenze della pandemia da
Covid 19, la guerra russa in Ucraina, la nuova instabilità internazionale sono
tutti elementi che inducono a una nuova riflessione sul futuro della politica
industriale in Europa. Negli ultimi anni, sulla falsariga dell’esempio di Airbus,
sono nate nuove alleanze europee nel campo dei microprocessori,
dell’idrogeno, delle batterie. In quest’ultimo settore, decisivo nell’automobile
come nell’informatica, tre aziende – Stellantis, Total e Daimler – si sono
appena riunite nella Automotive Cells Company.
In discussione a Bruxelles, oltre a nuove collaborazioni industriali in settori
strategici, magari finanziate da un nuovo strumento comune, è una riforma
più o meno incisiva delle regole sugli aiuti di Stato, pur di contrastare
politiche economiche in Cina o negli Stati Uniti dove i sussidi pubblici sono
ormai la regola. Ancora una volta, in assenza di un quadro regolamentare
europeo (di politica industriale a livello comunitario i Trattati non parlano), il
futuro europeo passa inevitabilmente da una cooperazione tra la
Germania e la Francia, due Paesi dai capitalismi diversi tra loro.
Il primo è quello renano, in fondo non dissimile da quello prevalente in una
lunga regione dell’Europa che dal Nord dell’Italia attraversa la Svizzera, si
affaccia timidamente in Francia, entra nella Ruhr, risale verso i Paesi Bassi e il
Belgio fino ad oltrepassare la Manica per raggiungere Londra e le Midlands.
Affonda le proprie radici nelle città-stato del Medioevo, nei legami secolari
tra i banchieri di Firenze e i mercanti di Bruges, nelle fiere di Milano e di
Colonia, nei porti di Rotterdam e di Genova. È un capitalismo fatto di legami
tanto azionari quanto familiari, di “salotti buoni” e di “Deutschland AG”. Nei
fatti, prevalgono le piccole e medie imprese, le relazioni locali, le conoscenze
personali.
Se il capitalismo renano si rifà idealmente al feudalesimo, quello francese è
più di impronta monarchica. In Francia, come in Spagna d’altronde, l’ancien
régime ha lasciato un marchio indelebile. Accanto al capitalismo famigliare
domina un capitalisme d’Etat. Più che altrove, la mano pubblica suggerisce e
dirige, investe e finanzia, utilizzando a piacere le grandi banche nazionali,
spesso guidate da ex alti funzionari pubblici. Prevale una centralizzazione
non solo geografica del potere assai più forte che in Germania, dove i
poteri sono distribuiti a livello centrale e regionale, affidati al Bund, ai Länder e
alle Gemeinde e dove a ciascun livello il governo locale deve fare i conti con
migliaia di Verbände, di associazioni ed enti in rappresentanza di interessi
altrettanto vari.
La diversa natura dei due capitalismi influenza il risultato finale. In Francia, lo
Stato controlla alcune importanti aziende del Paese e nei decenni ha
finanziato con il denaro pubblico importanti innovazioni industriali: il Concorde,
la carte à puce, il Minitel, il TGV, la televisione a colore Secam, il razzo Ariane,
oltre naturalmente l’arma nucleare.
Mentre la Francia modernizza e innova, la Germania affina e perfeziona. Fin
dall’epoca guglielmina, il rapporto fruttuoso tra imprese e università, tra
aziende e scuola ha fatto miracoli, anche durante il periodo comunista nella
DDR. Le poche società tedesco-orientali nate dopo la Caduta del Muro furono
quelle che riuscirono alla fine della Guerra Fredda a sfruttare l’antico legame
con la ricerca accademica. Un chiaro esempio è la Roth & Rau: nata nel 1991
nella grande periferia di Chemnitz, in Sassonia, si specializzò nell’energia
solare prima di essere inglobata nel gruppo svizzero Meyer Burger, quotato
alla Borsa di Zurigo.
Ciò non significa che la mano pubblica sia assente dal sistema
economico tedesco. Il legame tra banche e imprese è strettissimo, così
come è strettissimo il legame tra il settore creditizio e il mondo politico. Nella
seconda parte dell’Ottocento, Georg von Siemens (1839-1901) fu al tempo
stesso presidente di Deutsche Bank e deputato liberale al Reichstag. Ancora
oggi il settore creditizio in Germania è controllato per oltre un terzo dalle
banche pubbliche, le Sparkassen e le Landesbanken, nei cui organismi
direttivi siedono numerosi esponenti politici, regionali e nazionali. A livello
locale, le casse di risparmio sono il volano finanziario di una moltitudine di
iniziative, imprenditoriali e politiche.
Punti di contatto
Più in generale, secondo le ultime cifre pubblicate recentemente dalla
Commissione europea, Bruxelles ha approvato misure eccezionali di aiuto
pubblico all’economia sulla scia della guerra russa in Ucraina per un totale di
circa 700 miliardi di euro, di cui il 53% a favore della Germania e il 25% a
favore della Francia. I dati sono interessanti. Rivelano prima di tutto che
l’economia sociale di mercato alla tedesca non impedisce alla mano pubblica
di intervenire, anche generosamente, a dispetto del perseguimento del rigore
di bilancio. L’intervento statale è più parcellizzato che in Francia, segnato
dall’assetto federale e da una vena liberale, ma pur sempre presente. In
secondo luogo, le stesse cifre indicano quanto sia particolare l’attuale
situazione.
A differenza che in passato, Francia e Germania hanno posizioni meno
dissimili sulla necessità di facilitare l’uso del denaro pubblico
nell’economia, tra le altre cose allentando in qualche modo le regole sugli
aiuti di Stato – un desiderio che certo non fa l’unanimità tra i Paesi membri. La
vicinanza è emersa in un documento franco-tedesco pubblicato prima di
Natale, e poi successivamente in occasione del sessantesimo anniversario
del Trattato dell’Eliseo durante il quale i due Paesi si sono espressi a favore
di “una politica industriale verde in Europa”.
Per decenni, Berlino ha difeso norme rigide su questo fronte, ritenendo
essenziale garantire la libera concorrenza nel mercato interno. Oggi la
Germania affronta una crisi del proprio modello economico che le impone
di rivedere, almeno in parte, le sue priorità. La Russia non è più un fornitore di
gas a buon mercato; la Cina non è più un partner commerciale affidabile;
mentre la guerra in Ucraina richiede nuovi e imprevisti investimenti militari.
Preoccupa una possibile delocalizzazione delle imprese tedesche e la
perdita di competitività dello Standort Deutschland. Si legge in un documento
parlamentare del Partito socialdemocratico pubblicato a metà gennaio: “La
normativa europea relativa agli aiuti di Stato deve essere aggiornata per
essere meglio orientata alle sfide della concorrenza globale e per fornire
maggiori incentivi alle grandi trasformazioni e agli investimenti futuri (…)
Abbiamo bisogno di un’offensiva europea per gli investimenti industriali con
un’attenzione particolare alle tecnologie del futuro, all’espansione delle
energie rinnovabili e alla promozione delle innovazioni industriali”.
Al di là del Reno, la Francia non può che vedere positivamente un revival
dell’intervento pubblico nell’economia. In questi decenni, Parigi ha vissuto
con sentimenti contrastanti le regole stringenti del mercato unico. I Trattati non
distinguono tra proprietà privata e proprietà pubblica, ma limitano operazioni
di nazionalizzazione e controllano in modo occhiuto l’uso del denaro pubblico.
Ciò detto, la Francia è in una situazione ambivalente. Da un lato ha limitati
margini di manovra finanziaria, diventata anch’essa un Paese ad alto debito
(pari nel 2022 al 112% del prodotto interno lordo, secondo le ultime previsioni
della Commissione europea). Dall’altro, proprio la Francia spera di essere tra
i Paesi che più approfitteranno di una qualche riforma delle regole sugli aiuti
di Stato e della nascita di una politica industriale europea, nella quale far
valere la sua tradizione colbertista.
Bisogno di riscatto
Negli ultimi decenni, Parigi ha perso terreno in campo industriale, rispetto
alla Germania e all’Italia. Le ultime statistiche mostrano che l’industria in
Germania pesa per il 27% del valore aggiunto, in Italia per il 16%, in Francia
per appena l’11%. Potremmo addirittura chiederci se il ritardo francese in
campo industriale non sia almeno in parte attribuibile ai limiti posti dalle regole
europee al ruolo dello Stato nell’economia. In questo contesto, non deve
sorprendere se Parigi abbia cavalcato con enfasi i nuovi progetti europei
di comune interesse (IPCEI), oggi già avviati nei settori dei microprocessori,
delle batterie, dell’idrogeno. Autorizzati espressamente da Bruxelles, gli IPCEI
consentono ai governi di usare il denaro pubblico più liberamente che in
circostanze abituali. Parigi vede in questi progetti, e più in generale in una
riforma sugli aiuti di Stato, una occasione per un rilancio dell’industria
nazionale, anche in chiave di autonomia strategica dell’Europa, come emerge
dalla lettura di un recente rapporto parlamentare firmato da due deputati, il
centrista Patrice Anato e il neogollista Michel Herbillon.
Al netto della discussione in corso su un eventuale allentamento delle regole
relative agli aiuti di Stato, più che in passato Francia e Germania credono
nella necessità di rafforzare la politica industriale europea. Permangono
sensibilità diverse, storiche e culturali, eredità di due diversi capitalismi.
Eppure, mai come oggi i due Paesi hanno la possibilità di mettere da parte
gelosie economiche e protezionismi commerciali, accordandosi su nuove
collaborazioni. Alla fine degli anni Sessanta, l’epilogo incipiente delle Trente
Glorieuses indusse a un soprassalto di realismo e alla nascita di Airbus.
Oggi le evidenti difficoltà di entrambi i partner dovrebbero indurre loro a
rivedere nuovamente, e con maggiore vigore, le loro differenze in questo
campo.

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